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Francesco Bortolotti

Back to list Added Apr 30, 2002

"Un'arte non potrebbe essere moderna perché morirebbe nel momento stesso della nascita. L'arte è ancora e sempre la memoria delle generazioni"
(André Derain, cit. in "Arte", Editoriale Giorgio Mondadori, Settembre 2006, p. 53)

"Detesto il moderno. Cosa vuol dire essere moderno in pittura? I pittori di oggi non sanno nemmeno realizzare una frase pittorica. Prima, si doveva almeno imparare un po' di tecnica. Ricordo che quando Mirò ha mostrato i suoi primi quadri a Picasso, la sua risposta fu: 'Mirò, come puoi fare cose simili alla tua età?'. Mi sembra che il mio mondo non esista più. Non capisco nulla della nostra epoca. E' come se la bruttezza avesse invaso il pianeta".
(Balthus, in: Gilles Néret, "Balthus", Taschen, 2004, p.87)

“I critici della vecchia arte moderna sono stati ingannati e cornificati soprattutto dal “moderno” stesso. In effetti nulla è mai invecchiato più rapidamente e più malamente di tutto quello che, a un dato momento, essi hanno qualificato come “moderno”.
(Salvador Dalì, "I cornuti della vecchia arte moderna", Editions Bernard Grasset & Fasquelle 1956, SE srl, 2005, Milano, p. 35)

“Fra dieci anni si dirà che, come pittore, Picasso non era così bravo, e che Bouguereau non era così male”.
(Salvador Dalì, I cornuti … cit., p. 28)

"Mi sembra che, rispetto agli spettacolari progressi della scienza, l'arte del Novecento sia stata meno importante. La scoperta dell'energia atomica, la biologia, la decifrazione dei segreti della genetica: se paragonato a tutto questo, il pitale esposto da Duchamp appare poca cosa".
(E. Gombrich, in: repubblica.it/online/cultura_scienze/gombrich/gombrich/gombrich.html)

"Si è creata una ben strana situazione oggi nel campo dell’arte [...] Può darsi che questa volta il bisogno di rinnovamento, che mai vien meno nell’uomo, ci abbia giocato un brutto tiro, spingendo alcuni audacemente spogliati d’ogni bagaglio, in generose avventure verso l’ignoto, forse più per reazione disperata alla monotona opera dei molti che riducevano a schemi vacui e qualche volta ignobili le conquiste dei grandi maestri, che per illuminata fede nella loro nuova affermazione.
Si sono spinti, costoro, verso l’ignoto, coinvolgendo nello sdegno verità e contraffazione e trascurando anche quei mezzi necessari all’esistenza e allo sviluppo dei loro tentativi.
Per quanto mi riguarda, le uniche novità che mi stanno a cuore e che mi spingono a fare, sono le mie gioie, i miei dolori, le mie emozioni e i miei entusiasmi nella vita come mi è stata concessa, in quel mondo che è il mio. Né so se sia novità seguir decisamente il proprio istinto e, innanzitutto, disegnare e disegnare, agognando di giungere a costruire con schietto carattere le parti e logica armoniosa l’insieme.
Con questo scopo, nella fede di riconquistare qualcosa dell’antica meravigliosa esperienza, di quel mestiere che, purtroppo, è andato perduto, ho lavorato sodo e senza transazioni fino ad oggi, in una solitudine che a troppi giovani fa spavento. Ma tanto più sarò padrone di que’ mezzi concreti che certa infatuazione poetica depreca, tanto più chiaramente esprimerò il mondo lirico che vive in me e del quale non dubito.
Aggiungerò a tal proposito che non posso fare a meno di sorridere quando certuni mi rimproverano o mi concedono troppa abilità: non sanno o non vogliono capire che ho bisogno di una ben maggiore abilità; e intendo proprio abilità di mano e di occhio, che se poi ha da essere diversamente intesa, quei tali, evidentemente, non si accorgono che le loro pennellate alla moda sono ben altrimenti abili che le mie. Per il racconto umano che io voglio fare rinunzierò dunque alle paroline preziose e adotterò un linguaggio comune che sia inteso dai più, ma non per questo, penso, lambiccato e manchevole.
Così posso concludere, che a parole ho detto troppo. Quello che più conta mi auguro di poterlo dire chiaramente e, il più chiaramente possibile, con la matita e col pennello".
(Pietro Annigoni, in: "Annigoni", Gonnelli, Firenze, 1945)

“L’introduzione della bruttezza nell’arte moderna è cominciata con l’adolescenziale ingenuità di Arthur Rimbaud, che disse: “La bellezza si è seduta sulle mie ginocchia e me ne sono stancato”. E’ grazie a queste parole chiave che i critici ditirambici – negativisti a oltranza e odianti il classicismo come ogni topo di fogna che si rispetti – scoprirono le eccitazioni biologiche della bruttezza e le sue inconfessabili attrattive. Cominciarono a meravigliarsi di una nuova bellezza che dicevano “non convenzionale”, e vicino alla quale la bellezza classica diventava immediatamente sinonimo di leziosaggine.
Tutti gli equivoci erano possibili, compreso quello degli oggetti selvaggi, brutti come i peccati mortali (che essi realmente sono).
Per avere l’approvazione dei critici ditirambici, i pittori si affannavano a produrre il brutto. Più ne producevano, più erano moderni. Picasso, che ha paura di tutto, produceva cose brutte per paura di Bouguereau. Ma, a differenza degli altri, lo faceva volutamente, cornificando in tal modo quegli stessi critici ditirambici che pretendevano di trovare la vera bellezza. Ma poiché Picasso è un anarchico, dopo aver quasi pugnalato Bouguereau, usò la puntilla e diede il colpo di grazia all’arte moderna, producendo più cose brutte lui in un giorno che tutti gli altri in molti anni.
[…] Nel periodo algido della sua maggiore frenesia di bruttezza, mandai a Picasso, da New York, il seguente telegramma:
Grazie, Pablo! I tuoi ultimi e ignominiosi quadri hanno assassinato l’arte moderna. Senza di te, con il gusto e la misura che sono le virtù peculiari della prudenza francese, avremmo avuto una pittura sempre più brutta per almeno cent’anni, prima di arrivare ai tuoi sublimi adefesios esperpentos [Il termine è dello stesso Picasso. Letteralmente significa “personaggi brutti e ridicoli come spaventapasseri”. Tuttavia è probabile che Picasso associ a quest’idea quella di una certa immaterialità fantasmagorica. N.d.E.]. Tu, con tutta la violenza del tuo anarchismo spagnolo, in qualche settimana hai raggiunto i limiti e le conseguenze estreme dell’abominevole. E questo, come sarebbe piaciuto a Nietzsche, firmandolo con il tuo stesso sangue. Ora, non resta che tornare a volgere i nostri occhi a Raffaello. Che Dio ti protegga!”
(Salvador Dalì, I cornuti … cit., pp. 23-31)

"Se, infatti, nell’antichità il “bello” era un’attributo dell’idea (bello=buono, vero, virtuoso), oggi, nella società democratica del consumo, il suo concetto, disponibile a tutti a basso costo, è per lo più legato ad un qualcosa d’effimero, da usare e consumare. E mai come nel corso del Novecento ci si è accaniti contro la bellezza, cencando di svilirne l’idea fino al punto da non attribuirle alcun significato reale nelle dinamiche sociali ed allontanandola tenacemente dal suo contesto più naturale: l’arte. Ma, soprattutto, scindedone il suo significato da quello di verità, di giusto, di bene, per trasformarla fastidiosamente e insidiosamente in un sinomimo d’effimero [...]  concetto figlio degenerato di una modernità scriteriata".
(Alberto Agazzani, profilo/eventiV2.asp/idelemento/34692)

"Potrà mai essere 'realista' un pittore (o, peggio ancora, uno scultore)? E più in generale: potrà mai essere 'realista' l'arte? Etichette e definizioni che all'alba di un nuovo millennio ed in piena riscoperta della Pittura e dei suoi fenomeni più segreti non possono essere che classificate (e liquidate) come didascaliche, affrettate, superficiali, inutili.
Certo, è vero che nel grande supermarket dell'arte contemporanea si abbisogna di etichette e di scaffali per avviarsi con rassicurante (in) certezza verso questo o quel reparto, esattamente come, appunto, in un moderno supermercato (oggi diventato addirittura mostruosamente 'iper') dove i surgelati sono collocati in una posizione diversa dai detersivi e dalla pasta. Così nell'arte. Il realismo si contrappone, in certe menti facili e sbrigative, all'astrattismo in una tenzone fra definizioni e concetti insensata e vacua, che di tutto sa fuorché d'artistico e che troppo spesso vale solo ad esaltare l'ego smisuratamente criminale dei protagonisti di un sistema ormai davvero al collasso.[...] Michelangelo è un pittore (o uno scultore, liberi di scegliere) realista o astratto? E Piero della Francesca, Wiligelmo, Leonardo o Rembrandt? In costoro prevale più la riproduzione di una realtà o la forza di un concetto astraente o astrattivo? La realtà è una componente imprescindibile del fare arte, ma non si tratta che di un elemento, un punto di partenza, un riferimento come altri. L'arte, infatti, quando è tale è tutta opera d'astrazione. Anche quando si prefigge d'essere 'iperrealista' l'arte è esercizio raffinatissimo e sottilissimo d'astrazione perché rappresenta una visione inevitabilmente filtrata da una sensibilità e da un'intelligenza che mai e poi mai potranno annullarsi completamente in un'immagine dipinta o scolpita. Un punto di vista è già operazione d'astrazione. [...] Con tutto questo nulla si vuol togliere al valore della ricerca di quell'astrazione propriamente detta che, quando sostenuta da un mestiere e da una sensibilità autenticamente tali, sconfina parimenti nell'ultraterreno, creando quella magia senza spazio e senza tempo che, al pari della figurazione, rappresenta l'anima più autentica e potente dell'Arte".
(Alberto Agazzani, ''Il cacciatore di fulmini'', catalogo della personale del pittore Massimo Catellani, Libreria Bocca, Milano, aprile 2003)

"The contemporary art scene has nevertheless also witnessed, in many parts of the world, a powerful return to conservative attitudes expressed both through the use of traditional techniques and a return to equally traditional images.
[...] For a number of critics, recognition of this apparently conservative tendency would imply abandonment of the long-cherished concept of an avant-garde - as something which exists in perpetual opposition to whatever might seek to stifle creative experimentation. This seems to me to be putting the question in the wrong way. At the beginning of a new century one of these things we have to ask ourselves is whether the rebellious attitudes of the last century have not in fact become the orthodoxies which now impede progress. In recent years, one thing I have heard too often is the cry “But that’s not avant-garde!” What the existence of true avant-gardism implies is total fluidity of response and constantly changing methods of assessment and measurement. This book therefore sets out to look at the art we now have in new ways, in the hope of discerning what it might become in the future".
(Edward Lucie-Smith, Art Tomorrow, Finest SA/Editions Pierre Terrail, 2002)

Da Jean Clair, Critica della modernità, Allemandi, Torino, 1983:
"Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni.
LEOPARDI
La pittura, alla fine di questo nostro secolo, va male. Per chi ama la patria dei quadri, presto non resterà che il recinto dei musei, come per chi ama la natura non restano ormai che le riserve, per coltivare la nostalgia di ciò che non è più. A malapena, di tanto in tanto, un’opera singolare, come una specie resistente al pericolo; ieri l'opera di Bonnard o di Giacometti, oggi quella di Francis Bacon o di Balthus. I pazienti legami che i secoli avevano intessuto fra la terra e i quadri si sono dissolti davanti ai nostri occhi nello spazio di qualche decennio.
Eppure mai come oggi la pittura ha goduto di tanta considerazione. Cerimonie ufficiali, istituzioni, maisons de la culture, musei, libri, riviste, biennali, retrospettive, esposizioni gigantesche, fiere, vendite all'asta ne alimentano il ricordo, ne coltivano il rimpianto, ne esaltano gli ultimi sussulti, registrando le minime tracce della sua agonia. Storici dell'arte, critici, soprintendenti, sociologi, economisti, psicanalisti, universitari di ogni razza e paese moltiplicano intorno ad essa ricerche, analisi, lavori d'archivio.
Poche epoche hanno conosciuto quanto la nostra un tale divorzio fra la povertà delle opere prodotte e l'inflazione dei commenti che anche la più insignificante di esse riesce a suscitare.
Una certa «avanguardia» tuttavia occupa con gran fracasso la ribalta, esposta religiosamente dai responsabili dei musei, che stanchi del passato trovano in essa il brivido della novità, confortata da una critica, il più delle volte inetta, nell'idea di incarnare una legittimità rivoluzionaria, vera e propria cuccagna infine di un mercato che trova in essa dei prodotti labili e facilmente rinnovabili come in qualsiasi altro settore commerciale, suscettibili di suscitare il massimo profitto con la minima fatica.
Da un lato gli ultimi rappresentanti della pittura astratta e analitica moltiplicano all'infinito le variazioni sull'invisibile e il «quasi nulla». E per mascherare tale penuria del sensibile, la critica si gonfia in proporzione inversa al suo soggetto: più l'opera diventa inconsistente tanto più dotta sarà l'esegesi. Una piega della tela, un tratto, un semplice punto diventano pretesti per un discorso incomprensibile in cui si intrecciano i diversi gerghi delle scienze umane.
Dall'altro lato i campioni della Pop Art e del Fotorealismo sembrano aver dato, per un momento, all'appassionato d'arte frustrato dal puritanesimo dell'astrazione, l'illusione di offrire le delizie dell'immagine. È difficile tuttavia non accorgersi che l'abilità dei suoi rappresentanti, pubblicitari, grafici e ritoccatori fotografici, riconvertiti nel commercio dell'arte, nasconde in realtà la loro carenza pittorica. La loro iconografia vistosa è senza dubbio la più insipida che sia mai stata prodotta dall'epoca vittoriana in poi.
Altrove poi, i devoti dell'anti-arte, sessant’anni dopo Dada, continuano ad agitare i vessilli derisori di una chiamata alle armi alla quale nessuno risponde, né mai ha risposto. Infine, ultima incarnazione di questa frenesia crepuscolare, il movimento cosiddetto dei Neoespressionisti, Néofauves, Nuovi-Nuovi o Bad painters, celebra senza vergogna il connubio dell'impotenza e della derisione, impastando la pittura con un'impudicizia pari alla reticenza dei loro predecessori.
È come se ognuno si ingegnasse a sottrarre un frammento del corpus universalis della pittura, corpo un tempo intatto e oggi a brandelli, nell'incapacità di possederlo interamente. Taluno si appropria di uno dei suoi materiali, il telaio, la tela, il pigmento, la vernice e pretende di fare un'opera di uno solo di quegli elementi, talaltro riduce il mestiere all'abilità di un gesto che ingigantisce in maniera mostruosa, oppure si appropria della teoria, o piuttosto ne rabbercia alla meglio i frammenti per costruire a caso un mostro di carta; altri, infine, esalta unicamente il proprio potere di stupire. E come l'industria isola l'operaio in una catena di cui ignora l'origine e il compimento, uno fa le asole, un altro i bottoni, e il terzo cuce, così nel campo dell'arte uno diventa specialista della pennellata grassa e uniforme, della tela libera, del ritratto in primo piano, del pezzo di stoffa, dello scarabocchio, della monocromia rossa o dell'iridescente. E ognuno di tali disjecta membra si arrabatta a erigere in assoluto la misera spoglia, a proclamare che grazie ad essa, lui e lui solo, detiene tutto il corpo reale dell'arte. Atmosfera da basso impero allorché, essendosi persi mestiere e modello, ci si sforzava maldestramente di ricostituire un tutto a partire dai frammenti del sapere antico. Atmosfera, nel migliore dei casi, d'alessandrinismo, allorché, in mancanza di opere, proliferavano le chiose e la filologia.
Ma da tempo la vita ha abbandonato il corpo dilaniato dell'arte.
In pochi anni si è creato, dal mercante al museo, dal critico al soprintendente, un perfetto circuito chiuso in cui la circolazione accelerata di un qualsiasi prodotto artistico si è sostituita alla considerazione dei valori che esso racchiude. Circolare è diventato un valore in sé, in assenza di qualsiasi giudizio espresso sugli oggetti introdotti nel circuito. […]
E col passare degli anni le «arti fittizie» hanno finito col sostituire le arti tout court.
O forse si tratta soltanto di un problema di vocabolario? Di fronte al pullulare di oggetti eterocliti che il museo d'arte moderna propone ormai all'attenzione del pubblico, forse bisognerebbe inventare un termine che permettesse di designare tale fenomeno e riservare la parola «arte» per distinguere i soli quadri?
Perché intanto, per riprendere ciò che Julien Gracq diceva qualche tempo fa a proposito degli scrittori, di pittori di prima linea, pittori cioè che semplicemente dipingano, nessuno o quasi.
All'inizio del secolo Duchamp aveva lanciato un avvertimento contro «gli intossicati della trementina». La sua battuta non era diretta tuttavia contro la pittura: il disprezzo dell'arte «retinica» non escludeva l'ammirazione manifesta per Seurat, Braque, Matisse, né gli aveva impedito di scegliere, con un criterio estremamente acuto, le collezioni della Société Anonyme, che fece di lui il primo direttore al mondo di un museo d'arte moderna. Le frecce di Duchamp prendevano di mira gli innumerevoli gregari del pennello che, all'inizio del secolo, come oggi quelli del Fotorealismo, Support/Surface o Nuovi-Nuovi, imbrattavano chilometri di tela, senza la minima intelligenza. Non si era affatto opposto all'arte, ma ad un'arte ben precisa, quella accademica e pletorica dell'inizio del secolo; il suo atteggiamento, frainteso, servirà tuttavia come pretesto, durante mezzo secolo, a numerosi artisti per sfuggire ai problemi del mestiere.
È forse lecito supporre che se fosse ancora in vita lancerebbe oggi un avvertimento agli intossicati della teoria e dell'ozio. «Non c'è avvenire per l'arte per i venticinque anni a venire», aveva detto negligentemente nel 1952. Significava supporre che, passata questa scadenza, un avvenire potesse esserle restituito.
All'alba del secondo millennio il monaco Glabre guardava con meraviglia «il bianco mantello delle chiese» distendersi sull'Europa. Alla fine dello stesso millennio ci si potrebbe stupire nel vedere il grigio mantello dei musei coprire l'Occidente. Nel corso degli anni settanta, stando a quanto afferma il Consiglio internazionale dei musei, è stato costruito in media in tutto il mondo un nuovo museo per settimana. Ogni città, in quegli anni, ha voluto avere il suo, come all'alba dell'XI secolo ogni città voleva avere la sua cattedrale. Le vecchie istituzioni cominciarono a ingrandirsi freneticamente: nuove ali vennero costruite alla National Gallery di Washington, al Museum of Fine Arts di Boston, alla Tate Gallery di Londra, allo Stedelijk Museum d'Amsterdam. Il Museum of Modern Art di New York, il primo del genere, raddoppiò la sua superficie. A Parigi antichi edifici sono stati frettolosamente riconvertiti allo scopo di adempiere alle nuove funzioni. Nell'XI secolo il culto delle reliquie aveva accelerato la costruzione delle abbazie e stabilito nuove vie di comunicazione. Oggi è il culto delle opere d'arte che spinge a costruire i nuovi templi e regola le grandi transumanze cult

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