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Alfonso Rocchi

Back to list Added May 11, 2007

Testo critico - La poetica del ricercare

LA POETICA DEL RICERCARE

Sulla pittura di Alfonso Rocchi non esistono ragioni razionali in base alle quali si possa spiegare perché l’uomo, tra tutti gli esseri che abitano la terra, abbia deciso di dedicarsi ad un’attività all’apparenza non utile né necessaria come la creazione artistica e la sua fruizione; semplicemente ed inspiegabilmente egli lo fa da millenni, da quando ha abitato la prima caverna e ne ha decorato le pareti rocciose con i primi graffiti o le prime pitture. L’atto del decorare le pareti della sua “casa” pare per l’uomo un impulso ineludibile, in grado di potenziare quel basilare atto di appropriazione di un luogo che egli compie “abitandolo”.

La domanda non è da poco, ed oggi interessa sia l’arte che la scienza, specie negli studi di molti moderni biologi, fra cui Semir Zeki, autore di un testo significativo della moderna neurobiologia, dal titolo “La visione dall’interno” in cui egli analizzando i rapporti fra scienza ed arte, fenomeno della visione e cervello, giunge a definire una nuova disciplina che chiama “La poetica del ricercare”.


Secondo tale prospettiva, l’arte, sia per chi la produce che per chi ne fruisce, coinvolge una serie di operazioni che si svolgono nel cervello dell’uomo; sia I’esperienza estetica che qualunque esperienza cognitiva sono soggette a leggi che regolano alcune attività cerebrali e coinvolgono alcune strutture nervose nello stesso modo in tutti gli uomini, animali visivi, animali spaziali, per i quali, secondo il modello di approccio psico-cognitivo elaborato da Zeki, l’arte può rappresentare una sorta di linguaggio universale con leggibili da tuffi indistintamente, al di là delle differenze e delle diversità etniche, sociali, culturali.

L’arte sarebbe quindi uno dei tanti canali percettivi-cognitivi attraverso i quali l’uomo analizza il mondo che lo circonda e recepisce e scambia su di esso preziose informazioni. Una sorta di poetica del ricercare che abita l’universo conoscitivo e valoriale dell’uomo, da sempre. Tuttavia il concetto di arte, ed il significato del fare arte, mutano nel tempo a seconda dello sviluppo della cultura di un’epoca, della storia, della filosofia, dell’etica, della struttura psichica degli individui.


Fino alla metà dell’800 era facile concepire l’arte come rappresentazione oggettiva della realtà, come mimesi del mondo; con l’avvento della fotografia l’arte ha rinunciato al suo ruolo documentaristico, che la fotografa assolve meglio. Con l’avvento dell’Espressionismo cade il concetto di rappresentazione intesa come riproduzione, l’arte visiva diventa mezzo per una profonda analisi della psiche umana, la rivolta contro l’imitazione delle avanguardie del ‘900 inventa per l’arte un nuovo compito, quello di rappresentare non più la realtà concreta, ma quella invisibile, ovvero l’interiorità dell’animo umano, I’inconscio.


Ritengo che l’arte di Alfonso Rocchi si collochi all’interno di questo mondo di significati che ho cercato di delineare. Le opere artistiche che qui ammiriamo esprimono l’animo umano, sono un potente canale di comunicazione dell’incomunicabile, di catalizzatore per reazioni emotive che altrimenti resterebbero inespresse. Preciso subito che intendo fornire, senza alcuna pretesa di esaustività, solo alcuni spunti di riflessione. Il quadro è un’entità che offre sé stessa allo sguardo senza mediazioni: è colore, forma, armonia o dissonanza, in alcuni casi armonia e dissonanza unite. Proprio dall’assenza di mediazione dalla quale i quadri di Rocchi sì pongono scaturisce la reazione interna, emotiva, che essi suscitano in chi li guarda. La parola intorno al quadro è necessariamente labile, frammentaria: non può essere, in nessun caso, definitoria o interpretativa, se non in virtù di una sorta di violenza che pieghi il quadro alla cultura, ai meridiani e ai paralleli che albergano nella mente del cosiddetto “critico”. Per questo motivo lascerò che la parola fluisca liberamente, facendo emergere la sua funzione più nobile, quella evocativa.

Una parola “evocativa” dunque, una sorta di post scriptum ai quadri, una sorta di cassa armonica che produca risonanze all’interno di noi, uniti dall’esperienza potente e perturbante del “guardare”. Ciò che appare con assoluta evidenza nella pittura di Rocchi è la mancanza di descrittivismo, sebbene la leziosità gioiosa di talune sue figure, il loro candore intrigante ce ne suggeriscano, in alcuni istanti, la presenza. Dovremmo allora chiederci se sono quelle forme, quelle luci, quei volti di donna, quel colori in sé a suscitare le nostre reazioni emotive o non è piuttosto un “Qualcosa” che sta prima e al di sopra di luci, volti, forme e colori e in qualche modo rivive in essi, ovvero che da essi viene in qualche modo riflesso? Qualcosa che ci abita internamente, tutti noi, da sempre, il simbolo ad esempio.


La pittura di Rocchi è intrisa di simboli, per questo non può permettersi il lusso del descrittivismo: è pittura concettuale, o meglio ideale, poiché realizza e incarna un’idea. Soffermerò la mia attenzione sulle figure di donna dipinte da Rocchi, ricerca ed espressione incessante di un archetipo femminile, di un’immagine ideale vagheggiata, occasione per l’esaltazione dell’idea di individualità e di femminilità. Sono misteriosi i fattori che presiedono alla creazione artistica, ma spesso sono dei canali, ancora più misteriosi e misteriosamente intrecciati fra di loro, che collegano la mano dell’artista ai cosiddetti archetipi collettivi passando attraverso un relais, che chiamiamo psiche, la psiche dell’artista. E forse è questo che caratterizza il talento: avere una psiche (ma diciamo pure un’anima) che riesce a scoprire e a evidenziare quegli archetipi che ciascuno vorrebbe avere scoperto, riuscendo a trasmetterli ad altri rendendoli evidenti. Apprezzare un quadro, un’opera d’arte qualsiasi, una poesia, un bel libro, significa trovare in essa quello che cercavamo da tempo e che non eravamo mai riusciti a scoprire. Un’idea di donna ad esempio, di amore.


Altro punto di forza della pittura di Rocchi è la capacità di trasformare il colore in luce, (e - si osservi - non usa il colore per riprodurre la luce: trasforma il colore in luce) con un’operazione che in una struttura formale del tutto diversa, semplice e non complessa, era alla base della pittura dei quadri rinascimentali.

Anche il colore narra, forse è per questo che Rocchi insegue spesso soggetti molto simili tra di loro, ciò che li differenzia, ma si può cogliere solo con un’attenta osservazione, è la differente associazione cromatica degli “oggetti” che compongono il quadro, in cui il gioco evocativo emozionale si esprime. E’ il colore fatto luce che consente a quell’opera, a quel volto, di acquisire un colore emotivo differente, di evocare in noi un altro sguardo, un altro archetipo interno.


Interessante anche l’uso dell’espediente proprio della pittura dell’avanguardia, i titoli che - come ha detto Octavio Paz - fanno parte integrante delle opere. Naturalmente non bastano i titoli da soli, ma indiscutibilmente un titolo come Medusa, Babel Tower, Abbraccio, solo per citarne alcuni, costituiscono indiscutibili chiavi di lettura del quadro nella sua interezza e complessità.

Nella pittura di Rocchi domina la figura umana, che, nella rappresentazione della donna, diviene cosi archetipica da lasciarne quasi sospesa l’identificazione. A parziale commento delle figure di donna dei quadri di Rocchi vorrei usare il brano del Faust di Goethe in cui il poeta parla delle “madri”, depositarie delle immagini ideali delle cose: “...Divinità solenni troneggiano in solitudine; intorno ad esse non luogo alcuno, ed ancor meno un tempo. Parlare di esse turba. Sono le madri...”. Secondo Goethe l’immagine prima di Elena, idea pura della bellezza, si trova presso le “madri”: Elena non narra la propria storia, si pone come una figura ideale sottratta al tempo e alla sua furia devastatrice, irreale quasi, evanescente.

Analogamente le figure femminili dipinte da Rocchi sono figure silenziose, intrise di silenzio, votate al silenzio come se nulla, sul mondo, si potesse dire. Sono donne eternamente ritratte nell’atto di abbozzare un sorriso, la bocca schiusa, l’espressione vaga che sottolinea, o ricorda, l’alterità del pittore, del suo sguardo, la sua ferma e tenace volontà di tacere. Sono donne il cui silenzio è coraggioso, cosi come coraggioso è il modoin cui Rocchi le ritrae. Accanto ad esse ci sono le donne nude, lascive, carnali, che occupano generalmente i margini del quadro, che si sdraiano provocatoriamente sull’aureola dorata della madonna con il bambino, che si accoppiano con un sorriso malizioso negli anfratti della tela dipinta...

L’altro volto del femminile, un altro archetipo che riemerge dalle profondità dell’inconscio ed afferma la sua necessità di esistere. La sua pittura, intesa come tecnica pittorica è lieve, il colore viene steso con pazienza certosina affinché neppure una traccia dì materia rimanga sulla tela, ma colore e forma divengano, in una sintesi perfetta, quello che chiamiamo “immagine”, un’immagine talmente pura e sublimata da parere, a tratti, irreale, come se appartenesse ad un mondo ideale.


Nei quadri composti da molte figure, che l’autore stesso definisce “corali” e di cui abbiamo alcuni esempi di grande potenza ed intensità espressiva, la pittura diventa espressione di un conflitto tra lo sguardo dell’artista e la società odierna, contemporanea, non meno intrisa di volgarità e brutture rispetto a quella del passato rappresentata simbolicamente nel quadro.


La pittura diventa allora, in Rocchi, provocazione, denuncia delle contraddizione delle storture sociali, della disarmonia; provocazione che si esplicita non solo nella velata e sottesa critica al mondo presente, ma anche nei contrasti di forme e colori che appaiono, talvolta, nei quadri di Rocchi: la bottiglia di coca-cola, l’accendino si oppongono allora ai volti esili e protesi delle donne, somiglianti a vaghi pettirossi. Emerge l’idea di un’ arte che rivela, che scopre l’inganno d un mondo allo sfacelo, seguendo in ciò la sua più autentica vocazione.

La pittura di Rocchi sa dirci qualcosa sul mondo, possiede un linguaggio e la capacità di narrare la necessità di uno svelamento, di una denuncia. L’arte non condanna, svela, dà la possibilità di uscire dal mondo di ombre della caverna di Platone, di accedere alla luce della conoscenza. In questa prospettiva l’arte ha una funzione eminentemente terapeutica, curativa. Ma perché la terapia funzioni abbiamo, tutti, il dovere “morale” di credere all’arte,. alla sua potenza demistificatrice, alla sua capacità di trasformare la parvenza in vita.


Vorrei ringraziare il pittore anche e soprattutto per il coraggio delle sua scelte estetiche e pittoriche, nella consapevolezza che la globalizzazione culturale ed estetica oggi indirizza gli artisti verso una perdita della consapevolezza del loro ruolo socio culturale e dell’originalità ed unicità del loro percorso di ricerca.


Delfina Maffeis
 

Artmajeur

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