Aggiunto il 22 feb 2017
DEFRAG
Il tutto è più della somma delle singole parti
Il giorno in cui l'uomo è riuscito ad innalzarsi al di sopra del livello del suolo, realizzando uno dei
sogni più intimi e primigeni della sua storia, un'attitudine altrettanto antica è riemersa in lui: quella
del controllo visivo associato al processo di appropriazione. Già le poleis greche erano costruite
intorno ad un colle, dalla cui cima si poteva osservare tutto il dominio circostante. Quando esso si
espandeva troppo ed il riferimento visivo si faceva confuso, semplicemente si andava a costuire
un'altra città alle pendici di una nuova altura, bloccando l'espansione concentrica che, altrimenti,
avrebbe reso incontrollabile il territorio.
Oggi più che mai cielo e dominio viaggiano su binari paralleli, è senz'altro una caratteristica
peculiare della nostra civiltà. Molti artisti hanno colto questo dato di fatto e cercano di
documentarlo, in modi diversi e con una volontà più o meno polemica. Basti citare giovani come
James Bridle, o artisti affermati a livello internazionale come Ai Weiwei, entrambi veri e propri
attivisti contro la videosorveglianza aerea dei governi.
Nelle opere di Massimo Corona (Biella, 1968), al contrario, si legge il piacere dello sguardo che si
perde su una città. Barcellona, Berlino, Bologna, luoghi cari all'artista – tra cui la stessa città natale,
Biella – convivono con altre metropoli lontane, come Belgrado. La veduta aerea, tanto cara ai
maestri del Rinascimento, viene presa in esame dalle carte dell'artista, che deframmenta l'immagine
centellinando i movimenti della bic o del pennello. Nel caso della penna, l'uso di due colori primari
– il rosso e il blu – accosta alla dimensione ottica e analitica del lavoro un elemento di sintesi che
permette di focalizzare l'attenzione su certi particolari delle città, che diventano motivi astratti,
decontestualizzati, per poi perdersi nel totale non appena ci si allontana appena dall'opera. Il tutto è
realizzato attraverso un'attenta ricerca di equilibrio e rigore morbido, mai stridente, ma che
sottolinea come al processo di sintesi corrisponda sempre una perdita, sia essa semantica o
conoscitiva. In effetti, tutte le nostre esperienze come esseri umani si configurano come
deframmentazioni di dati esterni naturali: l'occhio comprime gli stimoli che i suoi recettori
registrano, l'orecchio scandaglia le onde che lo attraversano cercando di tradurle in informazioni per
il cervello, e così via. Tutto questo porta inevitabilmente ad una percezione che ci dà l'essenziale sì,
ma che lascia molto dietro di sé. Non a caso, infatti, Umberto Eco ha scritto che non può esserci
traduzione senza un qualche livello di tradimento1.
Nel momento in cui Corona prende in mano il pennello, mettendo da parte la carta in favore della
tela, l'utilizzo di due o tre colori predominanti fa sì che l'opera perda il connotato prettamente
grafico che il segno della bic aveva generato, in favore della stratificazione cromatica, componendo
ogni volta una teoria del colore nuova e personale. Sembra che l'amore per il mezzo pittorico e,
soprattutto, per la materia cromatica in sé e per sé, passi attraverso una fascinazione che ha radici
profonde nella storia dell'arte: mi vengono in mente i meravigliosi quaderni di Paul Klee, le cui
prove di colore hanno sicuramente una qualche affinità con quelle appese nello studio di Corona.
D'altronde la sperimentazione è insita nel fare artistico, e non vi è crescita senza un qualche tipo di
contaminazione. Mi riferisco qui alla produzione passata dell'artista, che prima prediligeva come
soggetto la figura umana, finché non è arrivata l'esigenza di qualcosa di più vasto, di più ampio
respiro, e dalla persona il focus è traslato verso la città, la quale in effetti rispecchia e sempre
rispecchierà il metodo di organizzazione dei singoli individui2.
Sommando tono su tono, il quadro guadagna di energia e forza nuove. I frammenti derivanti, anche
se nettamente separati da una griglia bianca, contengono di per sé la potenza dell'immagine totale.
Ogni singolo particolare attira l'attenzione e si ricongiunge con equilibrio agli altri, ma ciò non
basta a darci un qualche tipo di conoscenza sul reale: guardando i quadri di Massimo Corona si
riconosce, e quindi si conosce qualcosa. Avvicinandoci e isolando i frammenti piombiamo nel
Orte, rintracciabile su youtube.com
mondo dell'astratto e dell'emozione, dove importano soltanto i colori, le sensazioni, le armonie
grafiche: «Come se non tutto potesse essere svelato, colto, descritto, capito, spiegato, digerito»3.
Il percorso espositivo presenta, oltre alle carte e alle tele, anche una serie di sculture: teste umane ad
occhi chiusi che, anche se realizzate con un'attenta indagine realista, sembrano avere la stessa
serenità delle teste di Amedeo Modigliani. Le sculture riprendono in parte il carattere di attenzione
alla figura umana che i dipinti più vecchi di Corona presentavano, isolando però l'elemento
sostanziale, che ci distingue in quanto forme di vita uniche. Le teste, inoltre, sono realizzate
prendendo a modello i tratti somatici dei popoli caucasoidi, congoide e indianoide, e vi ricompaiono
i tre colori primari, come a rafforzare il senso di unicità di ciascuna di esse. Il singolo colore sulla
singola persona, ognuno diverso con la propria mente, le proprie sensazioni. Li accomuna la
presenza delle piante vive sulla sommità del capo, che crescono e continueranno a crescere per tutta
la durata della mostra e oltre. Esse riflettono il senso di allontanamento da una concezione
imperialista della città. L'uomo è visto come il minimo comun denominatore che fa da tramite tra lo
stato naturale e quello ordinato della città. Ma non c'è conflitto, non c'è critica. I volti sono distesi
nel loro riposo, sembrano assorbire e incanalare il mondo circostante, esattamente come fanno
anche le stesse piante, condividendo il loro spazio.
Concludendo, sembra proprio che nell'universo di Massimo Corona vi sia un atteggiamento saldo e
preciso alla contemplazione, ed una sicurezza intrinseca che l'uomo sia il punto di equilibrio tra
spazio abitato – o abitabile – e natura che non è affatto rimpiazzata dalla città, ma che anzi presenta
con essa dei punti di contatto. Coscienza individuale e aggregazione collettiva sono costantemente
fuse, così come i punti di vista sulla realtà che ci circonda. L'analiticità di un'osservazione quasi
scientifica passa la palla alla sensibilità e alla bellezza naturale. In mezzo sta un gap, quella parte di
conoscenza che si perde con la deframmentazione, spesso incolmabile, ma non per questo meno
ispiratrice.
Claudia Contu
1 U. Eco, “Dire quasi la stessa cosa” Bompiani, 2013.
2 A tal proposito, rinvio al celebre video realizzato per la Rai nel 1974 in cui Pier Paolo Pasolini racconta la città di
3 Massimo Corona in conversazione con Claudia Contu