City at war (2025) 绘画 由 Paolo Cantù Gentili

Creation year 2025
Artwork size 70 Width x 90 Height x 1.5 Depth cm
Paolo Cantù Gentili – City at War L'implosione del paesaggio urbano come sintomo dell'anima contemporanea In City at War, Paolo Cantù Gentili ci consegna una visione frammentata e allucinata dello spazio urbano, non come luogo fisico, ma come stato mentale e psichico. L’opera non raffigura la guerra nel senso illustrativo o narrativo; piuttosto, la evoca come condizione esistenziale. La città, in questo caso, è una costruzione interiore che ha perso la sua coerenza. I pigmenti densi e rotti – rossi e blu, caldi e freddi, vita e dissoluzione – diventano sintomi visivi di una frattura. Il blu domina la scena come eco di un gelo psichico, mentre il rosso irrompe come ferita, come scoppio di violenza trattenuta. Ma ciò che più inquieta è la presenza del vuoto: quell’area bianca, centrale, apparentemente intatta ma che in realtà è la distruzione. Non è ciò che manca, ma ciò che resta dopo l'annientamento. È l’eco visiva dell’assenza. Kuspit avrebbe parlato di questa opera come di un "ritratto psicopatologico del mondo moderno", e non a torto. Cantù Gentili sembra volerci dire che la città non è più il simbolo della civiltà, ma del collasso. Le sue strutture – accennate, suggerite, mai definite – si sfaldano in texture quasi fossili, come reperti archeologici di un'epoca già perduta. Questo dipinto non denuncia, testimonia. Non moralizza, ma fa sentire. C’è una fisicità nel modo in cui il colore è stato stratificato, raschiato, battuto contro la superficie. È pittura che lotta con la materia, come se volesse far emergere la verità nascosta sotto l’epidermide dell’immagine. Il gesto pittorico è qui l’ultimo atto di resistenza: contro l’oblio, contro l’indifferenza, contro l’anestesia. City at War è, in definitiva, un paesaggio dell'anima in rovina. Una rovina che però pulsa ancora, che grida silenziosamente. In questo, Cantù Gentili riesce in un’impresa rara: trasformare l’astrazione in una denuncia poetica e potente della condizione umana, offrendo allo spettatore non una via di fuga, ma un luogo dove restare a contemplare il disastro – e da lì, forse, ricominciare.

Paolo Cantù Gentili – City at War The implosion of the urban landscape as a symptom of the contemporary soul In City at War, Paolo Cantù Gentili delivers a fragmented and hallucinatory vision of urban space, not as a physical place, but as a mental and psychic state. The work does not depict war in the illustrative or narrative sense; rather, it evokes it as an existential condition. The city, in this case, is an interior construction that has lost its coherence. The dense and broken pigments – red and blue, hot and cold, life and dissolution – become visual symptoms of a fracture. Blue dominates the scene as an echo of a psychic chill, while red bursts in as a wound, as an explosion of restrained violence. But what is most disturbing is the presence of emptiness: that white, central area, apparently intact but which in reality is destruction. It is not what is missing, but what remains after annihilation. It is the visual echo of absence. Kuspit would have spoken of this work as a "psychopathological portrait of the modern world", and rightly so. Cantù Gentili seems to want to tell us that the city is no longer the symbol of civilization, but of collapse. Its structures - hinted at, suggested, never defined - crumble into almost fossil textures, like archaeological finds from an era already lost. This painting does not denounce, it bears witness. It does not moralize, but makes you feel. There is a physicality in the way the color has been layered, scraped, beaten against the surface. It is painting that struggles with matter, as if it wanted to bring out the truth hidden beneath the epidermis of the image. The pictorial gesture is here the last act of resistance: against oblivion, against indifference, against anesthesia. City at War is, ultimately, a landscape of the soul in ruins. A ruin that still pulsates, that cries out silently. In this, Cantù Gentili achieves a rare feat: transforming abstraction into a poetic and powerful denunciation of the human condition, offering the viewer not an escape route, but a place to remain and contemplate the disaster – and from there, perhaps, start again.