Ricardo Trigos, Cactus, 2012. Dipinto, dimensioni disponibili su richiesta.
Il deserto descritto dalla land art di Michael Heizer
I paesaggi di dune, di picchi spogli e torreggianti, di formazioni rocciose e di canyon levigati, che contraddistinguono i deserti, potrebbero essere semplicemente descritti facendo riferimento alle parole del National Geographic. Proprio la nota rivista americana identifica la suddetta estensione di terreno arido come uno specifico ecosistema, che, nonostante sia contraddistinto da piogge poco frequenti e temperature estreme, è in realtà animato da una grande varietà di flora e fauna, le cui peculiarità e stili di vita, ben si adattano alla sovra menzionata “sterilità” climatica. Infatti, le piante crescono solitamente molto distanziate tra loro, al fine di accedere alla maggiore quantità di acqua possibile, mentre gli animali sfuggono il caldo scavando fresche tane nel terreno, luoghi in cui essi si riposano durante il giorno, per poter essere in grado di procacciarsi il cibo durante la più fresca notte. Questo esaustivo racconto di carattere prettamente scientifico può essere arricchito da un punto di vista storico-artistico, offertoci dalla land art di Michael Heizer, maestro americano che, alla fine del 1960, ha lasciato New York per recarsi nei deserti della California e del Nevada, dove ha iniziato a produrre opere in grande scala, documentandole con filmanti e mostre fotografiche. Proprio in tali contesti aridi sono nate opere come Double Negative (1969-79) e The City (1972-2022), in cui emergono chiaramente gli stilemi di Heizer, la cui indagine artistica è caratterizzata dalla passione per le civiltà antiche, il ritmo tra volumi positivi e negativi, i salti di quota, le variazioni di scala, l’uso predominante di materiali naturali e la scelta di luoghi desertici o a bassissima densità abitativa. A proposito di Double Negative, questa opera di land art rappresenta il primo lavoro di rilievo del suddetto maestro, costituito da due trincee scavate sul bordo orientale della Mormon Mesa (Overton, Nevada). Pertanto, tale “scultura” è il frutto di un atto di pura sottrazione, che si è realizzato mediante l’uso di esplosivi e attrezzature pesanti, aventi il proposito di creare due geometriche incisioni nella terra, che, in grado di essere esplorate dagli spettatori, rivelano il paesaggio mediante la contemplazione dell’arte. Di conseguenza, il pubblico di Double Negative è stimolato a considerare la relazione esistente tra la terra e la creatività, ma anche a riflettere sul banale tentativo dell’uomo di imporre la sua volontà sull’ambiente, in quanto l’opera di land art, soggetta a cambiare o a scomparire nel tempo, dimostra tutta la precarietà dell’intervento umano. Per quanto riguarda The City, invece, tale complesso scultoreo rappresenta una delle opere d’arte più grande al mondo, che, iniziata a partire dal 1970 e terminata nel 2022, trova collocazione in una vasta area della remota contea di Lincoln, situata all’interno dell’arido deserto del Nevada. Questo monumentale lavoro è composto da tumoli di terra, piramidi di cemento e geroglifici, volti a generare una città “ideale”, il cui intento è quello di “rendere attuali” le costruzioni precolombiane ed egizie. Infatti, la creazione di Heizer fa esplicito riferimento al patrimonio culturale di Luxor (Egitto), ma anche a quello dello Yucatan, luogo in cui l’artista trasse sicuramente ispirazione delle costruzioni Maya e, in particolare, dal complesso archeologico del Chichen Itza. Tali “fonti” hanno permesso all’americano di unire la grande tradizione delle città del passato con un punto di vista più moderno, minimalista e industrializzato, reso attraverso l’ideazione di costruzioni realizzate tramite l’utilizzo di materiali di base, che, come l’argilla, la sabbia e la roccia, sono stati raccolti con mezzi minimamente invasivi, al fine di lasciare indisturbate le piante autoctone e la fauna selvatica, nel rispetto del più antico proposito della land art.
Suren Nersisyan, Saguaro cactuses in the desert, 2022. Olio su tela, 76.2 x 61 cm.
Yaël Moon, Venus V, 2017. Acrilico su tela, 100 x 100 cm.
Il Deserto: dalla land art alla pittura e alla scultura
Nel sovra menzionato racconto, il topico del deserto è stato narrato attraverso il punto di vista della land art, forma d’arte contemporanea nata negli Stati Uniti durante gli anni Sessanta, che ha abbandonato i confini del supporto pittorico e scultoreo tradizionale, al fine di operare direttamente sul territorio, generando creazioni in formato monumentale, realizzate attraverso l’uso di materiali ed elementi naturali, aventi il fine di costruire un’opera nel paesaggio e con il paesaggio. A monte di questa ideologia c’è anche un concetto fondamentale: l’uomo agisce sul paesaggio, che è in continuo cambiamento, al fine di riconoscere e dimostrare tutta l’effimerità del suo agire. Nonostante la permanenza di questi punti di vista, i più contemporanei interpreti della land art hanno progressivamente interagito con il paesaggio in modo sempre più personale, ovvero utilizzando, talvolta, anche materiali non presenti nel luogo in cui essi si trovavano ad operare. Ad ogni modo, non solo le opere della suddetta forma d’arte nascono con il fine di celebrare un preciso luogo, in quanto, allo stesso modo, i dipinti e le sculture degli artisti di Artmajeur hanno raccontato il deserto, proprio come dimostra il punto di vista di Petra Ackermann, Andrey Gorenkov e Artūras Tamašauskas.
Aurelia Steffanetti, Don't touch, 2020. Acrilico su tela, 100 x 80 cm.
Daria Kamishanova, Blooming cactus, 2020. Acquerello su carta, 30 x 21 cm.
Petra Ackermann, Tempesta nel deserto, 2010. Dipinto ad olio, 80 x 80 cm.
Petra Ackermann: Tempesta nel deserto
Il dipinto di Ackermann ci porta a conoscere uno dei più noti simboli degli Stati Uniti occidentali, ovvero la Monument Valley (Utah), pianoro desertico di origine fluviale, caratterizzato da guglie formate da roccia e da sabbia, aventi la forma di torri di colore rossastro, volte a rappresentare i più antichi testimoni dei fenomeni di erosione. Nello stesso stato ha preso forma un altro racconto creativo, ovvero quello di Sun Tunnels di Nancy Holt, volto a mettere in risalto le peculiarità luminose del paesaggio del deserto dei Grandi Bacini (Utah), luogo contraddistinto da ampie valli delimitate da catene montuose parallele, generalmente orientate in direzione nord-sud. Proprio in questo contesto, l’artista americana ha voluto collocare quattro cilindri di cemento, che disposti a croce aperta e allineati in modo da inquadrare il sole all’orizzonte durante i solstizi d’estate e d’inverno, perseguono la finalità di unire la terra e il cielo in un'unica dimensione, avente come punto di riferimento l’arte. Infatti, è solo quest’ultima che Holt ritiene capace di occupare una posizione stabile all’interno di una terra desolata, dove neanche l’uomo riesce a stabilirsi, se non per frammenti di tempo molto brevi.
Andrey Gorenkov, Rinoceronte pieno di nuvole, 2020. Olio su tela, 50 x 70 cm.
Andrey Gorenkov: Rinoceronte pieno di nuvole
Il poetico titolo dell’opera di Gorenkov rappresenta una perfetta introduzione al mondo surreale dell’artista, all’interno del quale, in un paesaggio desertico simile a quello della sovra menzionata Monument Valley, ha luogo un fenomeno ottico, giustificato dal pittore come un potente miraggio causato dall’aria riscaldata del deserto. Infatti, il dipinto è caratterizzato dalla “leggera e trasparente” visione di un rinoceronte, animale il cui corpo lascia intravedere alcune montagne, facenti parte di un paesaggio affine a quello “principale” dell’opera. Nella storia dell’arte un importante racconto surreale ha avuto luogo all’interno di un paesaggio desertico, infatti, ne Gli elefanti (1948) di Salvador Dalì, due animali dalle zampe lunghissime e sottili avanzano dai lati del dipinto verso il centro, muovendosi in un contesto estremamente arido e a bassissima densità abitativa, dove troviamo solo due figure umane, che paiono andarsi incontro. Proprio, i suddetti elefanti, aventi sul dorso degli obelischi, risultano essere un soggetto ricorrente nell’operato dello spagnolo, riscontrabile in altri capolavori, quali, ad esempio, Sogno Causato dal Volo di un’Ape (1944) e La tentazione di Sant’Antonio (1946). Infine, le peculiarità fisiche di tali mammiferi alludono al contrasto tra robustezza e fragilità, mentre gli obelischi paiono essere un chiaro riferimento di Dalì all’operato del maestro italiano Gian Lorenzo Bernini.
Artūras Tamašauskas, Cactus, 2018. Scultura in metallo e alluminio, 40 x 30 x 22 cm / 2.50 kg.
Artūras Tamašauskas: Cactus
La tipica vegetazione del deserto è costituita da piante xerofile, forme di vita che prediligono un ambiente arido, poiché le loro foglie, prive di clorofilla, sono in grado di sopportare lunghi periodi di siccità e trattenere l’acqua in presenza di umidità. Le piante grasse, come il cactus, simbolo indiscusso della flora desertica, sono capaci di immagazzinare grandi quantità d'acqua nel fusto o negli organi ipogei, nonché di eliminare una eccessiva traspirazione nei tessuti duri e impermeabili. Queste peculiarità, unitamente alla particolare e simpatica estetica della suddetta pianta, hanno reso il cactus un soggetto estremamente popolare, sia nella moda, che nell’arte e nel design, dov’è ritenuto allusivo di valori estremamente profondi, prevalentemente incentrati sulla sua capacità di adattamento, virtù necessaria in presenza di situazioni ostili, quali le condizioni avverse in cui tale pianta riesce a nascere rigogliosa. L’opera dell’artista di Artmajeur, probabilmente ispirata dai suddetti significati, mi fa tornare alla mente l’iconico Cactus di Franco Mello e Guido Drocco, oggetto di design realizzato per la Gufram nel 1972, che, seppur ideato in qualità di appendi abiti, rappresenta un “totem” e, allo stesso tempo, una “scultura”. Proprio tale Cactus, come quello di Artmajeur, si presenta come un oggetto ironico, curioso, ludico e irriverente, dalla funzionalità emotiva e comunicazionale piuttosto sviluppata.