Aggiunto il 13 ott 2008
ORGIA DI SERPI O DEI “NUOVI AFORISMI DI DIONISIO”
“…quel che era un gioco è diventata una cosa seria…” rivela Giuseppe “Pippo” Mannino nella nota finale del suo “Orgia di serpi” (edizioni Lepisma con prefazione di C.Calabrò); e se volessimo aiutarlo a capire fino a che punto, potremmo ad esempio dire che egli nel suo volumetto rasenta l’aforisma sapienziale, illustra con confessata quanto ispirata involontarietà la natura misteriosa e, di più, misteriosofica di un Mediterraneo arcaico ricostruito e non solo – come sovente accade – mellifluamente vagheggiato; frusta la carta e l’attenzione del lettore con le sue serpi, agitate e attorcigliate da una scossa nata da cose e idee come in un contatto tra poli elettrici.
In tema di “aforismi sapienziali”, incastonati nelle liriche quando queste addirittura non hanno intieramente un tono “orfico” (come in “Sette vite in una” e “Un giorno tornerò”), si può dire che Mannino risolve la “ambivalenza del dionisiaco” come Dino Campana: il vagabondo di Marrani si definì “ultimo Germano in Italia” e in quanto in pieno italiano avvicinò meglio dei suoi predecessori, in pieno teutonici, detta ambivalenza; laddove viaggiatori pre e post goethiani della secolare parabola romantica hanno prediletto, spesso contrapponendoli, chi l’aspetto spiritualistico e chi quello vitalistico dell’antichità mediterranea.
Come già Campana anche Mannino opera una fusione di queste due generalizzazioni, dando da una parte ragione alla critica storico religiosa, che vuole vitalismo “folklorico” e dottrine anticosmiche di “segretezza e purificazione” come due volti della stessa medaglia; e dall’altra singolare espressione a quel sentimento della “caducità lussureggiante” che anima la poetica o semplicemente la interiorità profonda di chi in “Etruria” -come per contiguità geografica capita al sottoscritto - o “Magna Grecia” – ma il discorso vale per altre sponde del Nostro Mare- attinge, in personali siti d’Antichità, a una sorgente sempre nuova e attuale di sostentamento.
Per un siciliano che ha “mietuto zappettato e costruito muri a secco” nella terra natale è possibile far coincidere questo senso vitale e attuale dell’ “antico” con personali ricordi d’infanzia, consentendo sulla scrittura del Mannino due grandi letture: quella essoterica, più schiettamente poetica e ben illustrata nella magistrale prefazione del Calabrò; e quella esoterica, per la precisione, che solo una spontaneità illuminata può dare, con cui si susseguono i passaggi “orfici”, sulla terra prima innalzata e poi abbassata a “mezzo di trasporto” per le anime (in Dubbi con una sola certezza”), sulla via iniziatica di “Sette vite in una” (“Quella strada l’ho percorsa per poco e per quieto vivere, ma l’ho subito abbandonata per sentieri impervi per boschi e valli.”), sull’Età dell’Oro (quella che ristabilirebbe il poeta “se fosse il Creatore”), sulla morte, fisica ma con ovvie valenze rituali, come generatrice di Vita (in “Un giorno tornerò”).
L’ultimo aspetto accomuna molto il cristianesimo anche normativo coi “Misteri” che lo hanno preceduto, e spinge Mannino a confrontarsi con la Bibbia, già calamitata nel testo per associazione con serpi tanto archetipali quanto concretamente ruzzolanti tra le pagine. Il racconto biblico dell’Eden e del Peccato Originario ha qualcosa di indigesto per il nostro poeta: gli apre una parabola del Riscatto che diviene essa stessa “Colpa Antecedente” rispetto un cosmo in cui l’uomo, calunniando le serpi e con esse la Natura, si sarebbe separato troppo da quest’ultima. In “Come Adamo ed Eva” si descrive bambino, come un piccolo ribaldo timoroso del Signore, tanto ladro quanto innocente che incorpora se stesso e una naturale malizia nell’eden non ancora caduto, come ad alludere che la successiva e più inquinata peccaminosità umana possa in parte essere determinata da un eccesso di astrazione nella innocenza edenica così come viene tramandata e interpretata.
In questa mirabile ricostruzione e riproposizione del Mediterraneo precristiano, Mannino rivive l’epoca di Socrate e dei sofisti confessando di non sapere nulla delle cose più elementari che lo riguardano, ma di sapere proprio le uniche per cui si sono inutilmente cimentati i successivi millenni di speculazione: la morte e il destino dell’anima dopo di essa, che consiste, una volta scesi dal “mezzo di trasporto” Terra, nell’andarsene a spasso per l’universo. Come in una lontana epoca, ma nel cuore di un singolo anziché tra i costituenti di una remota civiltà, convivono le “antinomie sofistiche” d’un Mannino “impiegato della vita” epperò borghese scaltro; e le barbare “Verità sacre” accolte come rivelate e indiscutibili.
Un Mannino poco oscuro ma nondimeno eraclitamente imbronciato pone in “Non entro nel merito” una polemica contro la comunicazione facile della società globalizzata; che visto il contesto assume i connotati d’un monito misterioso, da antico filosofo aforistico: “…Non entro nel merito…un asino non discute con una capra…mi dichiaro colpevole ed accetto il silenzio. Una condanna che non merito”. Nessun poeta aveva mai provato ad esprimere queste idee con più semplicità ed immediatezza; tanto più che il finale gioco di parole induce nel lettore una brusca doppia sensazione: di sconforto pel dramma della incomunicabilità e orgoglio quasi liberatorio per una diversità che riesce ad esprimersi con tale breve sapiente efficacia, “entrando nel merito” d’una comunicazione, per lo meno tra simili, finalmente riattivata.
Circa gli orgiastici striscianti protagonisti di questa raccolta, né a Mannino –che è stato spinto a rifletterci dopo- né tantomeno a chi scrive interessa enumerarne i risvolti allegorici. I serpenti del poeta sono del resto veri e si attorcigliano con tutti i loro mille suggerimenti possibili e contrastanti, in una “orgia germinativa” che è il nucleo di un reattore che nutre e moltiplica l’energia psichica come “un atomo per fissione fredda”. Ed è questa la polla che alimenta entrambi le correnti testuali, solo in apparenza biforcate in distinti esiti autobiografici e sapienziali.
“Cosa è stato? Che ho fatto?”, si chiede in sostanza il poeta nella nota conclusiva, emergendo dal testo come dal magma trasparente del suo mare leggendario e ilozoistico. Si accorge forse di essere diventato qualcosa di più e di diverso di un “impiegato della vita” con didentro un Fanciullino. I due si sono forse fusi in un Tiresia impattato negli inferi di una navigazione importante. Non entriamo nel merito di futuri approdi poetici, che saranno “indispensabili a lor stessi”. Certo, se come effetto collaterale conserveranno quello di guidare e stimolare così tanto altri navigatori e navigazioni, avremmo un motivo in più per ringraziare questo singolarissimo poeta.