Sandro Goldoni
Sono nato nel ’53, a Modena. Da 15 anni vivo in collina, 20 km più a sud, ma continuo a lavorare in pianura, fra Modena, Reggio, Bologna. Faccio il fotografo pubblicitario, da trent’anni. Negli anni ’70 –’80 era il più bel mestiere del mondo, dopo l’attore di teatro. C’erano un sacco di piccoli e medi clienti che avevano scoperto di potersi permettere un bel catalogo, un po’ di pubblicità… sgranavano gli occhi davanti al tuo banco ottico, alla tua batteria di flashes elettronici da studio, ai costosissimi fotocolor 13x18… erano quasi felici di pagare quel che c’era da spendere, per avere un lavoro ben fatto, da professionisti. Pretendevano, sia chiaro, e anche molto, ma questo non faceva che valorizzare la professionalità, motivare la creatività… se avevi qualcosa da dire trovavi le occasioni per farlo. E ci campavi bene, mal che andasse. I computer erano ancora delle macchine stupide con delle formichine verdi che tremolavano su piccoli schermi neri.
Adoro il digitale. Mi ha fatto riscoprire il piacere di produrre immagini, con la funambolica leggerezza che dà il veder finalmente quel che si fa mentre lo si fa. Da Lascaux in poi chiunque decidesse che voleva lavorare con le immagini non doveva far altro che guardare quel che faceva mentre lo faceva e paragonarlo con quel che aveva in testa: se qualcosa non funzionava poteva rifarlo, e lavorarci su finché non era soddisfatto. I fotografi no. E così, per ben più di un secolo, tutti abbiamo creduto che la differenza fra un bravo fotografo e uno non bravo fosse che al primo le foto “gli venivano” al secondo no. Col digitale anche un lemure può fare degli ottimi scatti di reportage, forse persino farci una mostra che quasi certamente qualcuno recensirà entusiasticamente… l’unico modo che abbiamo per distinguerci da lui è quello di avere delle idee prima di cominciare a scattare, e usare bene la digitale, per verificare se quel che stiamo facendo assomiglia a quel che volevamo fare e magari usare il display per farci venire delle idee migliori via via che ci lavoriamo sopra. La prima volta che ho affiancato la reflex digitale al banco ottico, per fare i particolari di uno scatto di arredamento, già realizzato in lastra, mi sono talmente divertito che mi è tornata subito l’antica passione per il nudo e il ritratto, sopita da tempo. Il mio lavoro consiste di still life, food, cataloghi di ceramica e arredamento… non ne troverete uno qui. Qua c’è Mr. Hide, il dottor Jekyll preferisce restarne fuori. Intendiamoci, nulla di provocatorio, “trasgressivo”, “blasfemo”, “trash”, “pulp”, “off” (ragazzi, tutto quel che facciamo è già stato fatto e ampiamente digerito, potete scommetterci…), anzi, tutto molto soft, stucchevolmente “pictorial”… al massimo un filo di eros, qualche lacrima di sensualità, profumo di divertito narcisismo. A me piace così. Adoro far sentire bene le persone con cui lavoro, uno shooting deve prima di tutto divertire, rilassare, far sentire bella la persona che ritraggo, con cui perco...
Scopri opere d'arte contemporanea di Sandro Goldoni, naviga tra le opere recenti e acquista online. Categorie: artisti italiani contemporanei. Domini artistici: Fotografia. Tipo di account: Artista , iscritto dal 2009 (Paese di origine Italia). Acquista gli ultimi lavori di Sandro Goldoni su Artmajeur: Scopri le opere dell'artista contemporaneo Sandro Goldoni. Sfoglia le sue opere d'arte, compra le opere originali o le stampe di alta qualità.
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Biografia
Sono nato nel ’53, a Modena. Da 15 anni vivo in collina, 20 km più a sud, ma continuo a lavorare in pianura, fra Modena, Reggio, Bologna. Faccio il fotografo pubblicitario, da trent’anni. Negli anni ’70 –’80 era il più bel mestiere del mondo, dopo l’attore di teatro. C’erano un sacco di piccoli e medi clienti che avevano scoperto di potersi permettere un bel catalogo, un po’ di pubblicità… sgranavano gli occhi davanti al tuo banco ottico, alla tua batteria di flashes elettronici da studio, ai costosissimi fotocolor 13x18… erano quasi felici di pagare quel che c’era da spendere, per avere un lavoro ben fatto, da professionisti. Pretendevano, sia chiaro, e anche molto, ma questo non faceva che valorizzare la professionalità, motivare la creatività… se avevi qualcosa da dire trovavi le occasioni per farlo. E ci campavi bene, mal che andasse. I computer erano ancora delle macchine stupide con delle formichine verdi che tremolavano su piccoli schermi neri.
Adoro il digitale. Mi ha fatto riscoprire il piacere di produrre immagini, con la funambolica leggerezza che dà il veder finalmente quel che si fa mentre lo si fa. Da Lascaux in poi chiunque decidesse che voleva lavorare con le immagini non doveva far altro che guardare quel che faceva mentre lo faceva e paragonarlo con quel che aveva in testa: se qualcosa non funzionava poteva rifarlo, e lavorarci su finché non era soddisfatto. I fotografi no. E così, per ben più di un secolo, tutti abbiamo creduto che la differenza fra un bravo fotografo e uno non bravo fosse che al primo le foto “gli venivano” al secondo no. Col digitale anche un lemure può fare degli ottimi scatti di reportage, forse persino farci una mostra che quasi certamente qualcuno recensirà entusiasticamente… l’unico modo che abbiamo per distinguerci da lui è quello di avere delle idee prima di cominciare a scattare, e usare bene la digitale, per verificare se quel che stiamo facendo assomiglia a quel che volevamo fare e magari usare il display per farci venire delle idee migliori via via che ci lavoriamo sopra. La prima volta che ho affiancato la reflex digitale al banco ottico, per fare i particolari di uno scatto di arredamento, già realizzato in lastra, mi sono talmente divertito che mi è tornata subito l’antica passione per il nudo e il ritratto, sopita da tempo. Il mio lavoro consiste di still life, food, cataloghi di ceramica e arredamento… non ne troverete uno qui. Qua c’è Mr. Hide, il dottor Jekyll preferisce restarne fuori. Intendiamoci, nulla di provocatorio, “trasgressivo”, “blasfemo”, “trash”, “pulp”, “off” (ragazzi, tutto quel che facciamo è già stato fatto e ampiamente digerito, potete scommetterci…), anzi, tutto molto soft, stucchevolmente “pictorial”… al massimo un filo di eros, qualche lacrima di sensualità, profumo di divertito narcisismo. A me piace così. Adoro far sentire bene le persone con cui lavoro, uno shooting deve prima di tutto divertire, rilassare, far sentire bella la persona che ritraggo, con cui perco...
- Nazionalità: ITALIA
- Data di nascita : 1953
- Domini artistici:
- Gruppi: Artisti Italiani Contemporanei
Influenze
Formazione
Valore dell'artista certificato
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la mia vita, il mio lavoro.
Sono nato nel ’53, a Modena. Da 15 anni vivo in collina, 20 km più a sud, ma continuo a lavorare in pianura, fra Modena, Reggio, Bologna. Faccio il fotografo pubblicitario, da trent’anni. Negli anni ’70 –’80 era il più bel mestiere del mondo, dopo l’attore di teatro. C’erano un sacco di piccoli e medi clienti che avevano scoperto di potersi permettere un bel catalogo, un po’ di pubblicità… sgranavano gli occhi davanti al tuo banco ottico, alla tua batteria di flashes elettronici da studio, ai costosissimi fotocolor 13x18… erano quasi felici di pagare quel che c’era da spendere, per avere un lavoro ben fatto, da professionisti. Pretendevano, sia chiaro, e anche molto, ma questo non faceva che valorizzare la professionalità, motivare la creatività… se avevi qualcosa da dire trovavi le occasioni per farlo. E ci campavi bene, mal che andasse. I computer erano ancora delle macchine stupide con delle formichine verdi che tremolavano su piccoli schermi neri.
Adoro il digitale. Mi ha fatto riscoprire il piacere di produrre immagini, con la funambolica leggerezza che dà il veder finalmente quel che si fa mentre lo si fa. Da Lascaux in poi chiunque decidesse che voleva lavorare con le immagini non doveva far altro che guardare quel che faceva mentre lo faceva e paragonarlo con quel che aveva in testa: se qualcosa non funzionava poteva rifarlo, e lavorarci su finché non era soddisfatto. I fotografi no. E così, per ben più di un secolo, tutti abbiamo creduto che la differenza fra un bravo fotografo e uno non bravo fosse che al primo le foto “gli venivano” al secondo no. Col digitale anche un lemure può fare degli ottimi scatti di reportage, forse persino farci una mostra che quasi certamente qualcuno recensirà entusiasticamente… l’unico modo che abbiamo per distinguerci da lui è quello di avere delle idee prima di cominciare a scattare, e usare bene la digitale, per verificare se quel che stiamo facendo assomiglia a quel che volevamo fare e magari usare il display per farci venire delle idee migliori via via che ci lavoriamo sopra. La prima volta che ho affiancato la reflex digitale al banco ottico, per fare i particolari di uno scatto di arredamento, già realizzato in lastra, mi sono talmente divertito che mi è tornata subito l’antica passione per il nudo e il ritratto, sopita da tempo. Il mio lavoro consiste di still life, food, cataloghi di ceramica e arredamento… non ne troverete uno qui. Qua c’è Mr. Hide, il dottor Jekyll preferisce restarne fuori. Intendiamoci, nulla di provocatorio, “trasgressivo”, “blasfemo”, “trash”, “pulp”, “off” (ragazzi, tutto quel che facciamo è già stato fatto e ampiamente digerito, potete scommetterci…), anzi, tutto molto soft, stucchevolmente “pictorial”… al massimo un filo di eros, qualche lacrima di sensualità, profumo di divertito narcisismo. A me piace così. Adoro far sentire bene le persone con cui lavoro, uno shooting deve prima di tutto divertire, rilassare, far sentire bella la persona che ritraggo, con cui percorro quel viaggio breve ma di qualche profondità che mi porta a sentire la sua bellezza a tutto tondo, come di viva e palpitante scultura, e a cercare poi di farla uscire in una stampa, più per come l’ho sentita e vissuta dentro di me che per com’è oggettivamente. Non rialzo seni, non tolgo taglie… cerco persone vere, che tali amino apparire… non voglio sensualità da spot pubblicitario, aggressiva e pornografica, ma l’illanguidimento del ricordo, dell’esperienza rivissuta con leggerezza e sincerità.
l'arte del ritratto
- Marta vien su… g’ho da far ona Madalena orante! –
- Subito paròn –
Una ragazzina minuta si alza, attraversa la stanza senza ricambiare gli sguardi fra l’iroso e lo sdegnato delle compagne, s’arrampica per una scala a chiocciola facendo rimbombare il metallo sotto gli zoccoli, e sparisce dietro una porta a vetri. Entra in un ambiente ampio, illuminato da una gran vetrata esposta a nord, in parte schermata da leggeri veli azzurri e da pesanti tendaggi neri, ingombro di improbabili arredi, stoffe preziose, colonne, sontuose poltrone, vasi cinesi, armature… al centro, montata su un pesante treppiede che si muove su rotaie, troneggia una fotocamera a banco ottico, in parte coperta da un drappo nero…
- Son qua, sior Marian – si ferma di fronte a un uomo abbigliato con eleganza ricercata ed estrosa, poco più che cinquantenne, che ricambia il suo sorriso, e le indica un tavolo ricoperto di drappi gettati alla rinfusa; dietro al quale altre stoffe, appese a funi o stese su impalcature di legno, fanno da fondale, nascondendo in parte alla vista grandi scenografie dipinte: terrazze sul mare, radure frondose, salotti borghesi, accampamenti militari, scorci urbani…
- Lèvate tutto e mettiti là, sdraiata. –
- La Madalena sdraiata nuda?! –
- Dàii!... g’ho dito Madalena par le to coleghe, g’ho da far una Venere Dormiente –
- Dele ciàcole de quele comari non m’importa un fico, le strapàrla par invidia, perché le xe brute, vecie e anca cornude, e so mi quel che digo... g’ho fredo ai piè, posso tener i calzaroti?…-
- Va bèn, ghe metarò davanti ona foglia d’acanto. Gìrate un po’ verso de me, brava, guarda qui… ma discovre ‘sta faccia, no te cognosserà nesùn… ti sa che te la cambio, te pare che una Venere la pole averghe el to bruto muso!?–
- Va bèn… tanto chi digo mi me cognosse lo stesso, e no da la faccia… -
- Cossa me toca sentir, bricòna! Ferma, no rider, sacramento! No rider, che ti vien mossa! –
Questo dialogo potrebbe aver accompagnato la realizzazione di una foto piuttosto famosa, uno dei tanti scatti “di lavoro” prodotti da Mariano Fortuny nel suo atelier della Giudecca, probabilmente per servirsene come bozzetto, o per studiare l’effetto di una luce, o l’efficacia di una postura… quel che accadde, tuttavia, fu che quella posa di repertorio, tutto sommato routinaria e poco interessante, venne vivificata dalla risata della modella, così sincera e irrefrenabile da risultare, appunto, “mossa”, costringendoci con ciò a desistere dall’archiviarla assieme alle dozzine di altre simili: inaspettatamente, essa ci rivela molto più di quel che avrebbe potuto fare la fotografia correttamente riuscita, e ci rende inopinatamente partecipi di un momento, di uno stile di lavoro, e infine del rapporto fra i due protagonisti di questa scena. Credo che nel ritratto, parlando di fotografia, e ancor più in quella che io chiamo “foto di figura” - cioè quella in cui l’inquadratura si distende, e chiama il corpo ad affiancarsi all’espressività del viso e dello sguardo per sostenerla, contraddirla, arricchirla attraverso una postura, una torsione, un tendersi o un abbandonarsi - valga la pena di proporsi di rappresentare, per superare risultati prevedibili - per quanto già appaganti fino alle lacrime, se raggiunti - non solo e non tanto l’aspetto esteriore e oggettivo del soggetto raffigurato, e neppure quella che noi sentiamo come una sua più profonda essenza umana, ma soprattutto la nostra stessa compromissione, attraversando la quale possiamo renderci, da meri realizzatori di immagini – quando non fortuiti delatori – autori (Auctor: “colui che fa crescere”). Si tratta di un percorso, emotivo e cognitivo, che può essere molto ricco e coinvolgente, fino a costituire una sorta di “sottotesto” che io ritengo in grado di fare la differenza fra una fotografia tecnicamente e psicologicamente ben riuscita e una di quelle immagini con le quali l’osservatore – quello meno superficiale, quantomeno – entra per così dire “in risonanza”, talora persino suo malgrado, come la tavola lignea su cui premiamo il diapason vibrante. Accade quando da una fotografia, coscientemente costruita, illuminata, inquadrata, nella quale cioè abbiamo diligentemente riversato la giusta quantità di lavoro riusciamo a far filtrare qualcosa di talmente reale e in certo modo “intimo” da far scattare l’osservatore, irresistibilmente propulso da quella molla che si chiama “emozione”, dalla comoda e tranquilla poltrona di spectator in cui si era accomodato, alla asimmetrica e allarmata postura dell’animadversor, costretto a “volger l’anima” verso ciò che fino ad un istante prima non attirava che il suo sguardo automatico. Eccola: l’anima. E’ arrivata leggera, impalpabile: non l’animus, (il coraggio, il pensiero del vir), proprio l’anima, l’aleggiare di un fiato impalpabile fra i denti socchiusi, l’intimo odore della vita, l’ἂνεμος, il vento che muove i capelli e i vestiti, ci fa fremere e rabbrividire, ci fa sentire per un attimo Menadi danzanti, angeli e animali, insieme... la vita, infine. Quella che ci tiene sempre in movimento, invisibile, quasi impercettibile, ma incessante, anche nostro malgrado. Il pulsare di una vena, il fremito delle ciglia, il dilatarsi di una pupilla, l’appannarsi dello specchio… il respiro, l’ansito. Questo è ciò che vogliamo scorgere nell’immagine che ci sta di fronte per esserne attratti, per animam vertere ad essa: l’anima riconosce se stessa, e ne trae una sorta di lieto smarrimento, di involontaria ridente emozione, grato scoramento… come una prova dell’esser vivi, e del nostro partecipare dell’humanitas.