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Sandro Goldoni

Ritorna alla lista Aggiunto il 28 mag 2009

l'arte del ritratto

- Marta vien su… g’ho da far ona Madalena orante! –
- Subito paròn –
Una ragazzina minuta si alza, attraversa la stanza senza ricambiare gli sguardi fra l’iroso e lo sdegnato delle compagne, s’arrampica per una scala a chiocciola facendo rimbombare il metallo sotto gli zoccoli, e sparisce dietro una porta a vetri. Entra in un ambiente ampio, illuminato da una gran vetrata esposta a nord, in parte schermata da leggeri veli azzurri e da pesanti tendaggi neri, ingombro di improbabili arredi, stoffe preziose, colonne, sontuose poltrone, vasi cinesi, armature… al centro, montata su un pesante treppiede che si muove su rotaie, troneggia una fotocamera a banco ottico, in parte coperta da un drappo nero…
- Son qua, sior Marian – si ferma di fronte a un uomo abbigliato con eleganza ricercata ed estrosa, poco più che cinquantenne, che ricambia il suo sorriso, e le indica un tavolo ricoperto di drappi gettati alla rinfusa; dietro al quale altre stoffe, appese a funi o stese su impalcature di legno, fanno da fondale, nascondendo in parte alla vista grandi scenografie dipinte: terrazze sul mare, radure frondose, salotti borghesi, accampamenti militari, scorci urbani…
- Lèvate tutto e mettiti là, sdraiata. –
- La Madalena sdraiata nuda?! –
- Dàii!... g’ho dito Madalena par le to coleghe, g’ho da far una Venere Dormiente –
- Dele ciàcole de quele comari non m’importa un fico, le strapàrla par invidia, perché le xe brute, vecie e anca cornude, e so mi quel che digo... g’ho fredo ai piè, posso tener i calzaroti?…-
- Va bèn, ghe metarò davanti ona foglia d’acanto. Gìrate un po’ verso de me, brava, guarda qui… ma discovre ‘sta faccia, no te cognosserà nesùn… ti sa che te la cambio, te pare che una Venere la pole averghe el to bruto muso!?–
- Va bèn… tanto chi digo mi me cognosse lo stesso, e no da la faccia… -
- Cossa me toca sentir, bricòna! Ferma, no rider, sacramento! No rider, che ti vien mossa! –
Questo dialogo potrebbe aver accompagnato la realizzazione di una foto piuttosto famosa, uno dei tanti scatti “di lavoro” prodotti da Mariano Fortuny nel suo atelier della Giudecca, probabilmente per servirsene come bozzetto, o per studiare l’effetto di una luce, o l’efficacia di una postura… quel che accadde, tuttavia, fu che quella posa di repertorio, tutto sommato routinaria e poco interessante, venne vivificata dalla risata della modella, così sincera e irrefrenabile da risultare, appunto, “mossa”, costringendoci con ciò a desistere dall’archiviarla assieme alle dozzine di altre simili: inaspettatamente, essa ci rivela molto più di quel che avrebbe potuto fare la fotografia correttamente riuscita, e ci rende inopinatamente partecipi di un momento, di uno stile di lavoro, e infine del rapporto fra i due protagonisti di questa scena. Credo che nel ritratto, parlando di fotografia, e ancor più in quella che io chiamo “foto di figura” - cioè quella in cui l’inquadratura si distende, e chiama il corpo ad affiancarsi all’espressività del viso e dello sguardo per sostenerla, contraddirla, arricchirla attraverso una postura, una torsione, un tendersi o un abbandonarsi - valga la pena di proporsi di rappresentare, per superare risultati prevedibili - per quanto già appaganti fino alle lacrime, se raggiunti - non solo e non tanto l’aspetto esteriore e oggettivo del soggetto raffigurato, e neppure quella che noi sentiamo come una sua più profonda essenza umana, ma soprattutto la nostra stessa compromissione, attraversando la quale possiamo renderci, da meri realizzatori di immagini – quando non fortuiti delatori – autori (Auctor: “colui che fa crescere”). Si tratta di un percorso, emotivo e cognitivo, che può essere molto ricco e coinvolgente, fino a costituire una sorta di “sottotesto” che io ritengo in grado di fare la differenza fra una fotografia tecnicamente e psicologicamente ben riuscita e una di quelle immagini con le quali l’osservatore – quello meno superficiale, quantomeno – entra per così dire “in risonanza”, talora persino suo malgrado, come la tavola lignea su cui premiamo il diapason vibrante. Accade quando da una fotografia, coscientemente costruita, illuminata, inquadrata, nella quale cioè abbiamo diligentemente riversato la giusta quantità di lavoro riusciamo a far filtrare qualcosa di talmente reale e in certo modo “intimo” da far scattare l’osservatore, irresistibilmente propulso da quella molla che si chiama “emozione”, dalla comoda e tranquilla poltrona di spectator in cui si era accomodato, alla asimmetrica e allarmata postura dell’animadversor, costretto a “volger l’anima” verso ciò che fino ad un istante prima non attirava che il suo sguardo automatico. Eccola: l’anima. E’ arrivata leggera, impalpabile: non l’animus, (il coraggio, il pensiero del vir), proprio l’anima, l’aleggiare di un fiato impalpabile fra i denti socchiusi, l’intimo odore della vita, l’ἂνεμος, il vento che muove i capelli e i vestiti, ci fa fremere e rabbrividire, ci fa sentire per un attimo Menadi danzanti, angeli e animali, insieme... la vita, infine. Quella che ci tiene sempre in movimento, invisibile, quasi impercettibile, ma incessante, anche nostro malgrado. Il pulsare di una vena, il fremito delle ciglia, il dilatarsi di una pupilla, l’appannarsi dello specchio… il respiro, l’ansito. Questo è ciò che vogliamo scorgere nell’immagine che ci sta di fronte per esserne attratti, per animam vertere ad essa: l’anima riconosce se stessa, e ne trae una sorta di lieto smarrimento, di involontaria ridente emozione, grato scoramento… come una prova dell’esser vivi, e del nostro partecipare dell’humanitas.

Artmajeur

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