Aggiunto il 7 nov 2023
I dipinti di Stefano Davidson sembrano voler raffigurare un mondo differente da quello reale, quotidiano, nonostante spesso ne utilizzi le forme e non si possa fare a meno di catalogarli tra i “figurativi” più classici. Nei suoi quadri si respirano però atmosfere molteplici e si va da quelle vagamente legate ad una sorta di neo-romanticismo, ad altre che si impennano nell’allegoria; ci si trova poi a precipitare con rapide picchiate nel fantastico o, addirittura, si vira bruscamente nell’onirico dove, spesso, ci si accosta a quell’istanza profonda che Freud ha descritto nel teorizzare l’inconscio. Nell’opera di Davidson quindi non si tratta più di osservare la natura così com’è o di leggervi un mondo a noi familiare, nonostante l’artista si esprima attraverso tratti assolutamente formali e palesemente realisti, ma di attingere a qualcosa di insolito che allontani lo spirito dal quotidiano, che dia voce alle angosce e, perché no, alle nevrosi, che presti lo sguardo al sogno più profondo. L’opera di Stefano Davidson e la filosofia che ne rappresenta le fondamenta si possono considerare un caso particolare all’interno del mondo dell’arte. Spesso in cerca delle surrealtà e dei paradossi che avvolgono il quotidiano, Davidson ha dipinto tele che seguono proprie logiche assolutamente soggettive dove spesso, se non sempre, il titolo è parte integrante nella creazione della stessa, è insomma partenza ed insieme traguardo del pensiero che vi si sviluppa all’interno. Se consideriamo infatti quadri come Il pasto nudo, dove la citazione di William Borroughs è palese e rappresenta la chiave d’interpretazione principe del dipinto, o Cesenacido, dove la crasi (Cesenatico-acido) la fa da padrona nel descrivere a chiare lettere il contenuto dell’opera, ecco che l’animo dell’artista e la sua volontà di espressione sono ancor più evidenti dopo la lettura del titolo. Di contro, anche quando la denominazione è semplice descrizione del quadro e quest’ultimo è semplice rappresentazione di quel che vi è ritratto, è palese come il pennello sia comunque andato a scavare nell’intimità del soggetto che ci si para davanti. E così, un opera come Sara (all’apparenza semplice rappresentazione di un gatto) diventa l’occasione per il pittore di cimentarsi con l’anima del gatto stesso (Davidson “convive” con undici felini e Sara è una di quelli) estratta a forza di pennellate dagli e negli occhi di quel felino. Parimenti in Sabbia, ecco che il pennello è tutto proteso non tanto ad esaltare le forme sinuose della modella ritratta, quanto la presenza su quel corpo di sabbia, nonché il fastidio che questa presenza produce, evidenziato egregiamente dal gesto della mano destra. Gli aforismi che l’autore ha abbinato a ciascuna delle opere raccolte in questo catalogo sui generis sono frutto della ricerca di una ulteriore chiave di lettura da donare all’osservatore, che possa permettere una ancor più più precisa collimazione tra la volontà di rappresentazione del pittore e l’interpretazione del suo pensiero. Davidson rappresenta il mondo e l’immagine attraverso il filtro di una combinazione di scenografia e mistero. Non è l’incomprensibilità dell’immagine o delle scelte cromatiche a dare anima alla sua opera, bensì la personalissima logica che muove il suo pensiero e l’uso che egli fa delle parole d’accompagnamento, ben evidenti nei titoli e/o negli aforismi di cui sopra. Davidson ha probabilmente reinventato un linguaggio pittorico che, pur partendo da una rappresentazione quasi classica dei soggetti di volta in volta scelti, porta l’osservatore in un mondo dove la parola è spesso luce indispensabile ad illuminare il significato dell’immagine e dove il pensiero è un colore fondamentale quanto quelli tradizionali dell’iride. Nell' osservazione dell’intera opera di Davidson non dimentichiamo mai comunque l’innata propensione dell’autore verso il gioco, la dissacrazione ed il nonsense, che sono evidentemente ben rappresentati nella scelta di alcuni degli aforismi di accompagnamento a temi decisamente “pesanti” o eccessivamente palesi. A questo proposito è quindi bene tener presente che il consiglio dell’autore a chi si accinge a guardare le sue opere è il solito che da sempre egli accompagna alla presentazione di ogni suo libro: “tutto ciò leggerete e che vi sembrerà molto serio ed impegnativo sarà da prendere con estrema leggerezza ed ironia, mentre tutto quanto vi parrà divertente e “tres fou” sarà invece da considerare in modo assolutamente serio e profondo.”
Yves Lirriverance – Curatore Queen’s Gallery London –
Stefano Davidson la cui opera in quest'occasione trasferisce l'arte “visiva” in una dimensione diversa da quelle abitualmente ritrovabili in Mostre di stampo più tradizionale. La si potrebbe infatti definire forse “Surreale”, “Concettuale” o “Provocatoria”, visto che comunque questi sono termini entrati ormai da decenni nel linguaggio dell'arte, anche se di tanto in tanto vanno considerati in accezioni diverse da quelle comunemente adottate. Ciò accade poiché le suddette parole vanno a descrivere “categorie” artistiche legate non tanto all'irreale se non addirittura al bizzarro, bensì a qualcosa di estremamente “stravagante” che esula dai canoni tradizionali di catalogazione. Si potrebbe quindi pensare, assistendo a questa Prima Esposizione Mondiale del NON, che questo sia uno di quei casi. Lo si potrebbe pensare in quanto il suo autore, l'artista Stefano Davidson, è sempre stato legato ad un genere di arte molto tradizionale, la pittura, ed ha sempre preferito descrivere i suoi temi con tratti prettamente figurativi, che esulano completamente dall'astrattismo o dal concettuale. Lo si potrebbe pensare nonostante il figurativo di Davidson molto spesso sfoci nell'onirico, nel simbolico, se non addirittura proprio nel surreale (ricordiamo i dipinti “Cesenacido” o “Palingenesi surrealista” su tutti). Nel caso di questa mostra non però, la provocazione, che non si può negare esista, così come la concettualità, è comunque legata, secondo l'autore, ad una sorta di figurativo “personale” cioè la capacità di generare immagini all'interno di se stesso da parte di ogni essere umano. Ecco quindi che ciò che ci troviamo di fronte, non è più poi così lontano dai canoni di rappresentazione tradizionali; anzi, le informazioni che riceviamo su ciascuna opera dal relativo titolo e dalla sua spiegazione ci consentono di comprendere forse meglio queste ultime rispetto a molte altre forme d'arte dove il concetto espresso fa parte dell’interiorità dell'autore rimanendo “suo proprio”, mentre nel NON è parte intima dello spettatore stesso.
Prof Claudio Strinati (Direttore Polo Museale Città di Roma)
Personalità stratificata in varie attività, quella di Stefano Davidson: oltre che apprezzato pittore è anche scrittore, giornalista, operatore musicale, ma anche provocatore (a Firenze ha già portato la mostra del Non, con tanto di “manifesto” dell’assenza quale unica presenza praticabile). Propone uno spaccato delle varie sfaccettature del proprio operare perfino nei titoli, distonici ed apodittici aforismi a contrappuntare le opere. Tutto questo in funzione non tanto di “spiazzare” lo spettatore o semplicemente provocarlo, quanto per offrirgli un diverso day in the life, per dirla con il beatlesiano Sergente Pepe. Ciò che gli interessa, insomma, è turn on il visitatore; e l’intraducibile termine inglese non è usato a caso, in quanto contiene plurimi significati: da accendere, innescare, ma anche eccitare, entusiasmare ecc. Un modo per focalizzare in modo diverso una materia pittorica particolare come la sua, che mira con mezzi tanto inconsueti da apparire scontati, a una diversa percezione del fatto estetico. In tale edenico universo di tela, per riprendere la metafora del giardino, il Davidson ricerca quel brivido dato dagli incanti di giochi quali caleidoscopi, lanterne magiche, view-masters, a occhi ancora incorrotti. Basta vedere i suoi Chisciotte, ma anche i ritratti nei quali si fa palpabile il senso di attesa, per capire che le sue sono istantanee eterne di un tempo altro. Quello al quale allude il titolo L’imperfetto presente senza futuro di un passato prossimo venturo: dichiarazione di rigetto di una contemporaneità dissennata che corre spasmodicamente, tesa ad un futuro chimerico, alla quale oppone una distonia che è anche distopia, quella cui alludono i suoi Giocatori, che recano nei volti le stigmate del dissidio con una stolta modernità; azzardo è anche tentare la sfida con l’invisibilità, affrontata in quella che potremmo chiamare “pittura bianca”, un esempio per tutti Palingenesi surrealista, una delle opere in mostra più emblematica. un modo anche questo per rimettere al suo posto il mistero nell’arte.
Fabio Norcini (Curatore Studio Rosai Firenze)
Stefano Davidson, come tutti i poliedrici, e' insofferente a qualsiasi 'specializzazione' che lo imprigioni in una qualsiasi scuola o etichetta, casella o corrente. Non stupisca quindi che con titoli, di opere o di mostre, intervenga perentoriamente, al fine di spiegare fuorviando e depistare s-piegando. Cosi' e' anche per questa sua personale che intitola 'Oltre l'apparenza inganna'. Per chi, come lui, ha teorizzato la non- arte eseguendo non-opere, il gioco sottile tra essere e apparire, realta' e artificio e' ovvio assuma importanza fondamentale e sconfini con l'indagine della fisica ottica e sue implicazioni filosofiche: questo vogliono rappresentare le sue 'visioni': una domanda rivolta a chi le guarda per metterne in discussione, ad ogni nuova occhiata, le aspettative. Se basta spostare la virgola nel titolo per ottenere due significati opposti, nei quali l'apparenza, quasi battistiana canzone in era Panella, una volta superata passandoci oltre inganna; o, permanendoci, non mente: cosi' davanti ai suoi quadri è opportuno collocarsi sempre nell'angolo ottico dell'inganno rivelatore.
Massimo Deyla (Curatore Esposizioni Sale del Centro Civico Baraccano Bologna 2014)
Nudi, semivestiti, surreale e uso del bianco (nero?), Don Chisciotte della Mancia che invece di andare contro mulini a vento va contro al temporale, Don Chìsciotte a cospetto di se medesimo, in un improbabile quanto dilacerante aut/aut , sé a sé e poi il pasto nudo ripreso da William Burroughs auspice e mentore, una natura natura morta asettica, la bottiglia leggera oscurata dalla siringa (nella tentazione deJJ’ignoto, dell’irrelato Is there anybody out There?): uguale a dire il coraggio della follia, o la ragione delle idee, per strambe folli alogiche possano sembrarti. Il paradosso del nonsenso che insegna, specie a pensare, a partorire un pensiero pensante, logico, significante, performante. Tutto ciò all'esito di una spietata redentiva indispensabile, sacramentale autoanalisi e autoascultazione del sé del sé e dell'altro da sé e della cosa, res provvista di anima, vibrante implosa nell’atto incoativo e tracimante nel suo farsi, ombra o luce o non sense non fa differenza. Scrive e annota l'autore: ''Dipingo quando non ho più parole, scrivo quando non mi bastano i colori."Nec plus ultra”. La stravaganza dell'Arte che è intelligenza suprema, superiore, ulteriorità delle cose, del mondo, dello sguardo immemoriale sui brandelli di un vissuto che lascia tracce di un deja vù destinato a perdersi insieme al nostro peregrinare ultimo, increduli, ospiti ancora in cerca della meta, dell'Eden, di una ragione che dia spazio all'immaginare, al sognare, al dasein. Senza scadere, pena l'apostasia, nella critica trita e ritrita, con tutto il rispetto che si deve a chi è aduso al calamo. ''L'opera di Stefano Davidson e la filosofia che ne rappresenta le fondamenta si possono considerare un caso particolare all'interno del mondo dell'Arte, spesso in cerca delle surrealtà e dei paradossi che avvolgono il quotidiano, Davidson ha dipinto tele che seguono proprie logiche assolutamente soggettive dove spesso, se non sempre, il titolo è parte integrante nella creazione della stessa, è insomma partenza ed insieme traguardo del pensiero che vi si sviluppa all'interno anche quando la denominazione è semplice descrizione del quadro e quest'ultimo è semplice rappresentazione di quel che vi é ritratto, e palese come il pennello sia comunque andato a scavare nell'intimità del soggetto che ci si para davanti.
Gli aforismi che l'autore ha abbinato a ciascuna delle opere sono frutto della ricerca di una ulteriore chiave di lettura da donare ali'osservatore, che possa permettere una ancor più precisa collimazione tra la volontà di rappresentazione del pittore e l'interpretazione del suo pensiero. Davidson rappresenta il mondo e l'immagine attraverso il filtro di una combinazione di scenografia e mistero. Non è l'incomprensibilità dell'immagine o delle scelte cromatiche a dare anima alJa sua opera, bensì la personalissima logica che muove il suo pensiero e l'uso che egli fa delle parole d'accompagnamento che porta l'osservatore in un mondo dove la parola è spesso luce indispensabile ad illuminare il significato dell'immagine e dove il pensiero è uncolore fondamentalequanto quelli tradizionali dell'iride ''(citazione citabile dal mare magnum del web).
Adminicula personae polisemici che si attagliano all'essenza: nevrotico= colui che costruisce castelli in aria; psicotico= colui che vi abitapswicologo = colui che riscuote l'affitto (defimizioni di Jerome Lawrence, che trasla sardonico ad angolo acuto l'usuale punto di vista).
Il reale, il surreale, il grottesco, la danza dei pulcini, la grande porta di Kiev, l'oltre-le-cose, crasi (crisi?), dunque, del cogito e del pragma all'un tempo: aveva voluto, per diletto del suo spirito e la gioia dei suoi occhi, alcune opere suggestive che lo gettassero in un mondo sconosciuto, glj rivelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero il sistema nervoso con eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni indifferentemente atroci" (J..K. Huysmans)
Estrapolo ancora daIle tante chiose: ''Nella lettura/osservazione dell'intera opera di Davidson non dimentichiamo mai comunque l'innata propensione dell'autore verso il gioco, la dissacrazione. A questo proposito è quindi bene tener presente il consiglio dell'autore a chi si accinge a leggere/guardare : ''tutto ciò leggerete e che vi sembrerà molto serio ed impegnativo sarà da prendere con estrema leggerezza ed ironia mentre tutto quanto vi parrà divertente e tres fou sarà invece da considerare in modo assolutamente serio e profondo.": che altro dire?
Foresta di simboli, di baudelairiana memoria, echi di reminiscenze, allegorie. Non ci si illuda, allora, di camminare sospesi in uno spazio familiare perché nel cerebrale che sposa l'onirico il razionale strizza l'occhiolino alle deità hillmaniane, l'inconscio è conscio, la nevrosi e la regola, la follia reclama un suo statuto, stanca di rimirare il suo sparring partner, quel nomos da cui quella ''normalità'' della quale abbiamo piene le tasche. e che ci trascina nei vortici limacciosi o nel padule stagnante dell'omologazione, dell'iper-reale destituito di senso, della coazione a ruminare bovinamente un copione senz'anima, freddo, lasco, asettico.
Si, perché il bianco e il nero, senza grigi a mezza via né interludi cromatici sono i veri colori del mondo,il sudario steso suJJe cose, l’urlo senza voce, l'universo immaginato, l'inventato, catatonico e roboante a un tempo, scritto, o tracciato, squarciato, costruito con gJi utensili del mestiere, quali che siano, ma costantemente lì che ammiccano complici, al servizio del fingitore.
Giuseppe Fedeli (Critico d’Arte dopo la mostra Autoanalisi – retrospettiva - con ben 102 opere esposte al Castello di Loro Piceno nel 2010)