Aggiunto il 7 giu 2004
Eccessi visionari del terzo millennio
“A partire da un frammento di sapere o di memoria letterale, il sogno è capace di ingenerare una perspicacia psicologica, una divinazione degli altri e del loro modo di pensare molto superiore alla conoscenza che noi abbiamo della realtà... i volti sembrano venire da altrove, quando siamo noi che disponiamo di tutto...”, scriveva Jean Baudrillard (“Taccuini 1990- '95” ed. Theoria, Milano) riferendosi al sogno come processo di alterazione del reale e considerandolo come straordinaria condizione in cui si vive “per eccesso”.
Anche il giovane architetto, e artista genovese, Giorgio Croce, con la sua pittura fantastico-visionaria vive una dimensione d'eccesso simile a quella del sogno: il suo frammentato, complesso e affabulante immaginario visivo - di natura surrealista - come un piano sussultorio è attraversato da balzi euritmici che spaziano dall'astrazione geometrica a quella naturalistica, da un virtuosismo di carattere iperrealista a una sintesi iconografica dove il reale si erge a simbolo, fuori dall'immanenza e dal contingente, senza precisi nessi e legami logici.
Qui la funzione di controllo è completamente allentata e il giudizio è sospeso. Un po' come i calcolatori elettronici che con le loro fantastiche performance sono scollegati dalla coscienza umana.
E il racconto dell'artista non si sofferma a creare un unico grande spazio in cui nascono, crescono e muoiono molteplici avvenimenti ma, come in un caleidoscopico puzzle, si articola in numerose finestre, ciascuna: spazio, privilegiato alveolo, cuore e centro di un micro-racconto che vive e si alimenta (in simbiosi) con quelli circostanti. Oppure, al contrario, vengono a contatto tra loro realtà incommensurabili che, elidendosi, finiscono per ignorarsi. Solo per un attimo sembra che ogni cosa abbia un significato, per poi accorgersi subito dopo che, installata una nuova gerarchia di rapporti, tutto subisce un'invisibile trasformazione diventando oggetto di contemplazione di una golosa e assetata percezione visiva.
Anche il gesto oscilla in linguaggi differenti, ora duro, incisivo come graffito rupestre, ora morbido e ondeggiante come piega barocca (riferimenti all'espansione spazio-dinamica del Borromini), o in altri casi ancora, debordante e irrefrenabile come il veloce defluire dell'acqua fiumana. Mentre gli orizzonti sono sempre mobili, alla ricerca di un possibile centro che attiri le periferie.
Il principio di indeterminazione e di contraddizione animano costantemente la struttura processuale del lavoro, andando ad alimentare fonti di energia che - attraverso il duttile collante dell'ironia - sanno direttamente collegarsi al centro dell'uomo, alla sua capacità creativa. Prendono corpo, in questo senso, espressioni esilaranti rese da un' esagerata distorsione formale che allenta il senso tragico dell'opera. Sottile filo rosso, questo, che permette salti di qualità e collegamenti tra differenti livelli ramificati nella molteplicità delle letture e nella complessità dei linguaggi adottati.
Spiega infatti l'autore: “Il mio, è un parlare più lingue nello stesso tempo. Il difficile è esprimere contemporaneamente l'idea di unità”.
Se in genere i dipinti ad olio sono ottenuti con violenze cromatiche sovente basate sulla forza dei complementari (in particolare del rosso/verde), nel dipinto “Collisione biologica”, 2005, la tavola cromatica è invece giocata sui contrasti del bianco-nero contaminati da cromie sanguigne.
Qui, l'autore descrive, e mette in comunicazione, due emisferi opposti.
Quello superiore, reso da chiare morbidità pittoriche - diluite in atmosfere tonali - è scosso da un unica chiazza rossa: vampa di fuoco simboleggiante un possibile vessillo. Solo l'accenno ad un larvato onphalo (ombelico del mondo) può fornire l'idea di un'amplificazione spaziale di tipo prospettico.
Al contrario, nella parte sottostante, s'individua una forma collinare molto scura, al cui interno germinano segni nerastri (a questo colore si associa l'idea del buio, della notte, del nulla, legati al silenzio e alla passività, ma anche quella di profondità di sentimenti e di capacità introspettive), astratti e pesanti come gli arcaici graffiti rupestri. In questo spazio curvilineo - accanto a simbologie polinesiane e a indecifrabili scritte - si autoalimenta e vive affastellato una sorta di codice biologico suggerito da spirali e da sinusoidi. Evidente allusione, questa, alla biologia e ai pericoli della manipolazione genetica, cui l'artista spesso allude nel suo lavoro.
La morte è qui poeticamente evocata da una grande ad annerita forma d'uccellino - irrigidito e senza vita - con le zampe piegate e rivolte verso l'alto (visibili gli accenni all'universo figurale di Goya).
Ad unire i due mondi sta, in posizione quasi centrale, una figura allampanata maschile nella cui silhouette si staglia un personaggio femminile che stringe un neonato. Il complesso figurale, esageratamente allungato in altezza ed appena accennato da pennellate nere attraversate da tocchi rossastri della gonna, si staglia sullo sfondo simbolicamente come axis mundi (asse del mondo), capace di mettere in comunicazione cielo e terra. Ma al contempo, la curiosa parvenza di carattere (quasi) grottesco stempera la drammaticità del contingente per proiettare l'opera fuori dal tempo e dallo spazio.
Miriam Cristaldi