Aggiunto il 6 set 2008
Per raggiungere la verità dell’essere (nel personaggio, nell’ oggetto, e in ogni altro concetto visivo) occorre ci sia la sofferenza del procedere cognitivo.
Tradotto in parole povere: bisogna saper dipingere.
In un secondo momento possiamo prendere in considerazione tutti i moti dell’ “es” (esprimere, esternare, escutere, esporre) che portano l’uomo a diventare espressore delle realtà, a lui esterne ed interne.
Per inquadrare nella giusta luce il caso D’Aquino, Gaetano D’Aquino da Catania, occorre parafrasare Cartesio.
Dipingo, dunque sono.
Un assioma che porta il mito dell’ immagine, del quale noi tutti siamo inconsapevoli portatori per eredità culturale, ad indicare la possibilità del pensiero di raggiungere l’essere.
Per gli artisti, questa sorta di “sindrome di Buonarroti”, (“Perchè non parli?”) è sentita - naturalmente più o meno - in relazione alle proprie possibilità narrative.
I motivi per i quali Gaetano D’Aquino si avvicina alla tela bianca e la “incigna”, cominciando a segnare il tratteggio grafico, che poi illumina di colori, dando quindi la grazia della verità all’ immagine ottenuta, stanno proprio in quella operazione di mimesi, che noi poveri comuni mortali non sappiamo fare: cioè riportare in superficie - sulla tela, pur limitata e limitante - gli orizzonti esterni ed interni del paesaggio, oggetto, personaggio, concetto.
Una operazione che, in vari stilemi, ha percorso i secoli e la storia dell’ arte ma che voca (da vocare, vocazione) sempre più raramente artisti di realtà “totale”, come D’Aquino.
Operatore dell’ immagine, soprattutto anatomica, che può ben definirsi iperverista, quando nelle sue “icone” civili, laiche, profane, salva il soggetto riportato in primo piano, sulla tela, dalle insidie dell’ impressione, cioè della tentazione del riassumere, dell’ essenzializzare.
Il vellutato “Corpo di donna” è la narrazione di un corpo di donna: a nessuno verrà in mente di vedere l’altro.
D’Aquino lavora con infinito cesello, giocando con una segnazione capillare i particolari epidermici dell’ opera, che poi avvolge in una sequenza di velature cromatiche, fino ad ottenere l’unicum del soggetto, appunto - “come se” - il dipintore catanese volesse carpire al mondo quelle ( ormai rare) frazioni di integrità plastica e volesse farle rivivere per sempre sulle sue tele.
Ma non è come dirlo, naturalmente.
Ed ecco il suo lento, meditato orientarsi verso il reale: anche nella fissità di un solo fotogramma, l’essere, il “vivere” di un paesaggio, di un oggetto, di un personaggio, di un concetto, sono attraversati da una luce che noi per definizione chiamiamo “fotografica”, ma che altro non è in Gaetano D’ Aquino che il desiderio voluttuoso di raggiungere la mimesi dell’ assoluto naturale, di segnare con rigore il circostante, di ridare esatta fedeltà somatica alle anatomie.
Sarebbe facile, come sempre accade con i pittori veristi, realisti, iperrealisti, anche in questo caso, invocare gli ormai vetusti diritti alla interpretazione che l’uomo, indubbiamente, deve rivendicare, e che - è storicamente accertato ha invece portato il concetto d’ arte verso la non distinzione tra significato e significante dell’astrattismo, verso la casualità concettuale delle perfomances, verso il qualunquismo gestuale dell’ arte informe, pardon informale, verso gli automatismi effettuali del clik fotografico, verso la non verità speculare, anzi virtuale dell’ arte informatica, verso gli illusionismi dell’ arte cinetica. In una parola, verso il chaos delle definizioni.
A diecimila anni da Altamira, non sappiamo ancora dire che cosa è l’arte.
Esattamente il contrario della direzione in cui si è posto questo operatore siciliano, con la sua riaffermata, calma, palmare, tattile, antropica completezza narrativa.