Pietro Calabrese
ciò che ancora oggi mi percuote il passo della mano è quella traccia rimasta ancorata, quel senso di ostruzione alle traduzioni in staticità di un corpo, di un organismo, dello spazio, che gli studi sulla “Vergine delle rocce”, lasciarono come un giunto notevole, oramai diciotto anni fa. Da allora il mio modo di indagare intorno alle “cose” ha avuto diversi “incontri con uomini straordinari”, ma Leonardo, forse, rappresenta il primo interlocutore, dove quel qualcosa chiamato coscienza ha visto una luce, la mia.
è un percorso, quindi, quello che qui viene esposto, che dichiaratamente si defila dalle molteplici interpretazioni di carattere “astratto”, al riparo da una non-logica comune alle contemporanee letture che spesso scolorano l’agire delle molteplici espressioni comunicative, che nel mettere in rilievo la complessa dicitura di un opera, non trovano altro che lo spiegarla come uno stacco dall’essere che l’ha concepita, e da se.
il luogo dove ora lavora questo cammino è anche qui dove ho portato queste tele, e a cui, in occasione della mia prima personale del 2002, era stato dato il nome di affichesperimentali.
Sperimentali come a voler sottolineare un tentativo empirico di propria, nuova comunicazione, un fermarsi un poco per capire cosa arriva, mentre è ancora un tutto in moto. Di fatto accade che questa è la prima messa in scena di opere legate a una tecnica ricca di materia povera come l’ossidazione del ferro, ruggine su tela, risolta in illustri cornici di palanche da cantiere, dove i motivi significanti non sono esclusivamente i materiali mendicanti, ma anche i soggetti subalterni relativi ai processi di produzione, tramite l’evidenziazione di quei segni di lavorazione e trasformazione che in quei materiali stessi mendicanti non sono. A quella “patina del tempo” che illumina e rivaluta con ottica diversa quel necessario intervento di un incognito carpentiere, muratore, fabbro, falegname, attraverso le luci sulle orme del suo passaggio, si somma l’altro lato, spesso oscurato, frutto di ricerca e attenzione costante al riuso come mèntore, come risposta obbligata alla macchina di questo altro tempo, alla sua anestetica produzione di consumo, a metà strada tra adozione e, ready-made.
affiche a sostenere non tanto l’accezione pubblicitaria adfixus, ma a portare quel francese senso “per indicare quei cartelloni con speciale e nuova arte disegnati, a colori vivi e pochi, a linee audaci e bizzarre, così da fermare l’attenzione dei viandanti e costringerli a leggere il richiamo che vi si contiene”. Perché è nel viandante che trova una sua ragione rispetto a ciò che incontra, perché è nel suo passo, che risiede questo mio interesse, ora.
Ruggine su tela per me significa giocare,
ruotare intorno a una tela incorniciata con delle palanche da cantiere, danzare e veder danzare quelle lastre che una dopo l’altra lascio penetrare nella tela per ore, posa dopo posa, giorno dopo giorno, pensiero dopo pensiero, ruggine dopo ruggine.
E’ la ruggine quella parte di te che vive in te usurpando spazio ad altro, a quell’altro che vorresti ma che non sei? Magari a quell’altro che devi essere?
E allora accade che si ribalta tutto,
le ruggini cominciano a uscire, così, disinvolte, e dicono: “noi siamo le ruggini di pietro”.
E ridivieni bimbo…. da adulto
La ruggine esce dal ferro? E allora vai dagli amici fabbri e: ”che t’avanzano scarti di lastre?”, e te li danno, scarti di tutte le forme e dimensioni, e li guardi, li carteggi, li lavi, li prepari….
La ruggine ha bisogno dell’acqua per potersi svolgere? E allora tu in quell’acqua ci metti una tela e cominci a danzare, in quell’acqua ci cominci a saltare, da una lastra all’altra, da uno scarto all’altro.
Le lastre hanno bisogno di pesi per sedimentare a contatto? E allora tu cominci a riempire secchi d’acqua, sempre più secchi, sempre più acqua, secchi ovunque, secchi da ovunque, giorni passati alla ricerca di secchi da adottare, e poi li riempi, d’acque, e li sposti da una lastra all’altra, fino a riempire tutta la tela di lastre secchi acqua umori pensieri.
E poi li togli, pesano, togli tutto, tutto, rimane solo la tela la cornice un po’ d’acqua, e la ruggine, appena svelata.
La guardi, e ogni volta è diversa, per ogni lastra è diversa.
E ricominci, rimetti le lastre i pezzi di legno per distribuire il peso dei secchi e i secchi, un gioco nel gioco, lastra su lastra, e in mezzo a quelle lastre, a quelle giornate in sovrapposizione, scopri dei piani, tra una posa e l’altra, ed entri.
Giochi allora coi giochi dei giochi, e cominci a spingere, a muovere e bloccare, a contrarre e a espandere, a dilatare e a comprimere, a bruciare e a diluire con la testa, con le spalle, con le mani, quello spazio che in un piano non ti si era mai risolto.
Fino a che poi ti fermi perché quella non è più ruggine, ma è ruggine di pietro.
E avrà un nome.
Suo.
brevi note biografiche
pietro calabrese nasce a Roma il 2 aprile del 1967.
Dopo la maturità artistica, si iscrive e frequenta a stento la facoltà romana di architettura. Autodidatta, come formazione e produzione, rifugge gli stantii schematismi formalistici propugnati a sistema in quegli anni, preferendo la formazione sia attraverso la scelta di corsi impostati sulla molteplicità del fare architettura, sia tramite lo studio e la documentazione fotografica critica e diretta delle opere dei maestri del Movimento Moderno e dell’architettura contemporanea, con particolare attenzione verso i testi architettonici scandinavi e tedeschi, ovvero, organici ed espressionisti.
A questa prima scrittura si aggiungono in un primo momento, e come passaggio di cerniera, gli studi che compie nelle diverse realtà vernacolari soprattutto italiane, per arrivare ad oggi dove oltre alla comprensione delle numerose alternative agli attuali percorsi dell’architettura soprattutto occidentale, le ricerche si sono concentrate sulle architetture e insediamenti cosiddetti “informali”, tipiche dei paesi in via di sviluppo (dove ha svolto ricerca diretta), e sulle possibilità di relazionare le inevitabili trasformazioni delle stesse al consolidato assetto culturale degli abitanti che di tali spazi ne rappresentano la parte vitale.
La sua pittura oggi, è il risultato di un percorso che rigetta l’odierno sterile e compromesso fare architettura e le consequenziali non possibilità espressive. Dopo varie ricerche e studi nell’ambito delle discipline dell’arte applicata, a partire dal 1999, ha sviluppato una tecnica personale basata sull’impiego dell’ossidazione del ferro (ruggine su tela), e palanche da cantiere, dedicata a tele di grandi dimensioni. Uno degli intenti è proprio legato alla grande dimensione, dove la misura è data dalla volontà di obbligare l’interlocutore a stabilire necessariamente un diverso approccio con l’opera, che diviene non più oggetto, ma soggetto capace di dilatare l’esperienza percettiva di un qualsiasi spazio (fisico e mentale), svincolata dal piano a due dimensioni per essere proiettata nello sfondamento del piano stesso, attraverso sovrapposizioni in serie di semplici lastre di ferro lasciate ossidare su una tela bagnata.
Nel suo fare, una componente non troppo dichiarata, è basata nella ricerca e nella sottolineatura, e quindi nella volontà di comunicare, più che il risultato finale, che è e rimane tale come valore esclusivamente legato all'interpretazione (che sempre accade, al di là delle volontà e delle proposizioni), il processo realizzativo non come atto materiale in se, ma come puro e semplice flusso "energetico" dato dalla possibilità (che esiste e che richiede uno sforzo aggiuntivo, oggi fin troppo compromesso) di poter tras-formare-funzionare-strutturare-impiegare-interrelare, il tutto e il nulla, quello che prima di tutto è il nostro spazio mentale.